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Album TOP 10


Andrea


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premessa

Difficilissimo scegliere quale siano i cinque, dieci, venti dischi preferiti, indipendentemente dal genere musicale. D’altronde sono come figli condivisi. La redazione di Rock Generation ha scelto di fermarsi a dieci, quindi questi sono i miei, ovviamente in ordine sparso. Avrei potuto inserire opere che mi hanno fatto crescere interiormente quali “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” dei Beatles, “Live” dei Colosseum, “Faruaji” della Ciapa Rusa, “Cheap Thrills” dei Big Brother and the Holding Company, “A Love Supreme” di John Coltrane, “In the Court of the Crimson King” dei King Crimson, ecc. ecc. ecc. Ma ho preferito far parlare il cuore.


STEELEYE SPAN - Hark! The Village Wait ind_b.jpg
 

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Il leggendario album d’esordio degli Steeleye Span che ridefinì il folk inglese. Il gruppo, creato da the Guv’nor mr. Ashley Hutchings, in questa formazione visse lo spazio di un solo LP, senza (purtroppo) effettuare alcun concerto. Maddy Prior e Tim Hart da una parte, e i coniugi Gay e Terry Woods dall’altra, infatti non andavano d’amore e d’accordo; ma riuscirono a lavorare insieme per pubblicare nel 1970 questo capolavoro. Aiutati dai due batteristi cardine del folk revival inglese, ossia Gerry Conway e Dave Mattacks, diedero nuova luce e ulteriore linfa alla tradizione della terra d’Albione. Imprescindibile, etereo, favoloso.


PENTAGLE – Basket of Light ind_b.jpg
 

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I Pentangle sono stati un genere a sé stante. Mischiando blues, folk e jazz, arrivarono ad essere un unicum nel panorama musicale mondiale. Di fatto un supergruppo, i cui membri venivano da importanti esperienze soliste e non, vissero lo spazio di 6 dischi. “Basket of Light”, del 1969, probabilmente è il loro più famoso, pregiandosi della hit “Light Flight”. Ma è anche tanto di più: la maestria, la tecnica sopraffina, il feeling che emergono nei vari brani proposti sono spropositati. John Renbourn e Bert Jansch alle chitarre, Jacqui McShee alla voce, Danny Thompson al contrabbasso, Terry Cox alle percussioni: pazzeschi, impressionanti, unici.


FAIRPORT CONVENTION - Liege & Lief ind_b.jpg
 

hull “Liege & Lief”, ossia il manifesto del folk rock inglese. Chiunque voglia conoscere e capire questo movimento, deve necessariamente avere questo capolavoro senza tempo nella propria collezione. I Fairport Convention venivano da una tragedia: un incidente sull’autostrada M1 li priva del batterista Martin Lamble, della fidanzata di sir Richard Thompson (uno dei fondatori del gruppo, insieme a Simon Nicol e Ashley Hutchings), della propria serenità. Vanno avanti comunque, ingaggiando Dave Mattacks e confermando in formazione il funambolo Dave Swarbrick al violino, oltre all’irraggiungibile vocalist Sandy Denny. Decisero di andare a vivere insieme e, a stretto contatto, sfornarono a fine 1969 questo disco, che pesca a piene mani nei meandri della tradizione popolare inglese, unendovi la forza del rock. Amore, vita, morte, sincerità, fantasia, dolcezza, talento, magia, volontà, poesia. E tantissimo altro. Qui c’è il meglio di quel periodo, anche se “Liege & Lief” è assolutamente oltre ogni concetto di tempo.


LOCANDA DELLE FATE - Forse le lucciole non si amano più ind_b.jpg
 

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Sul finire del periodo d’oro del Progressive italiano, siamo nel 1977, la Locanda delle Fate diede alle stampe “Forse le lucciole non si amano più”, universalmente risconosciuto come uno dei cardini del genere. Proveniente da Asti, questo complesso lavorò di fino, provando e riprovando per mesi e mesi, migliorando e affinando le canzoni che compongono questo fantastico disco. Risultato complessivo: esso non ha un secondo di stanca, è coeso come pochi altri, ha senso in ogni sua nota, trasuda nobiltà d’intento, insomma fa centro. I titoli e, soprattutto, i testi delle canzoni sono oggettivamente fra i migliori partoriti nell’Italia degli anni settanta. Da portare sull’ipotetica isola deserta, insieme a una cassa di ottimo Barbera, ovviamente consigliato dal loro bassista Luciano Boero, enologo e fra le colonne portanti del progetto.


LOU DALFIN - Gibous, Bagase e Bandì

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L’Italia degli anni novanta fu un periodo molto interessante per il rilancio del rock indipendente. Tante band resistono ancor oggi. Fra queste i Lou Dalfin, dalle montagne cuneesi, quindi dall’Occitania italiana. Già attivi ad inizio anni ottanta ma in formazione acustica, aggiunsero sezione ritmica, chitarre elettriche, sintetizzatori ed elettronica, alla potente ghironda del leader Sergio Berardo (di fatto uno dei fautori della rinascita culturale occitana) e all’organetto di Dino Tron. Dopo “W Jan d’l’Eiretto”, nel 1995 pubblicarono il disco che li lanciò a livello internazionale, ossia “Gibous, bagase e bandì”. Energia, impatto, bravura, attitudine, sono alcuni dei concetti che trasudano da questo grandissimo lavoro, che merita di essere ascoltato e riascoltato, direi vissuto, come ad essere il 15 d’agosto al loro annuale concerto davanti al santuario di San Magno in valle Grana, a saltare, ballare, cantare ciò che quelle terre hanno di meglio da offrire. La storia esaltata da menti e cuori rari a trovarsi. Ousitanio vivo!


ALLMAN BROTHERS BAND – At Fillmore East ind_b.jpg
 

manLa summa dell’arte made in U.S.A., oppure il migliore (doppio) disco live della storia della musica rock. Dopo due lavori in studio, la Allman Brothers Band decide di puntare su una testimonianza che esprima il meglio dei loro concerti al Fillmore East di New York. Sudisti nei suoni e nei caratteri, questi sei eroi moderni, capitanati da uno dei migliori chitarristi di sempre, ossia Duane Allman, dal vivo esprimevano il meglio di se stessi. Per cui Duane alla chitarra, slide e non, suo fratello Greg, organo e incredibile voce, Dickey Betts alla chitarra gemella, Butch Trucks e Jaimoe Johanson alle batterie, Berry Oakley al basso. “At Fillmore East” del 1971 è monumentale, pressochè irraggiungibile, magnetico, talvolta riflessivo. Fa sognare, esalta, nutre. Si parte dal blues, cammina col rock, vola col jazz. Le varie dorate reunion sono state un sogno per ogni appassionato, ma quella formazione non potrà mai essere avvicinata. Jaimoe, l’unico superstite; tutti gli altri nei cieli a jammare, nuovamente insieme. Tuoni e lampi sono opera loro.


LYNYRD SKYNYRD - One More From The Road ind_b.jpg
 

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Sì, d’accordo, il loro disco d’esordio, uno dei migliori di ogni tempo, “Pronounced 'Lĕh-'nérd 'Skin-'nérd”, è sul podio (d’altronde contiene “Free Bird”, il loro manifesto programmatico); come lo è il successivo “Second Helping”, con la hit “Sweet Home Alabama”, uno dei brani più coverizzati di sempre. Ma è col doppio LP live “One More From The Road” del 1976 che i Lynyrd Skynyrd fecero capire al mondo intero di che pasta erano fatti. Chi ebbe la fortuna di vederli in concerto, ne parla ancor oggi come un mix di fuoco e fiamme e talento e stoffa (andatelo a chiedere ai Rolling Stones, stracciati sul loro stesso palco dal set dei sudisti in quel di Knebworth 1976). Tutti noi altri possiamo solo ascoltare questa testimonianza di estremi forza, coraggio, vigore. La bastardissima sfortuna era lì ad attenderli: solo quel maledetto incidente aereo del 20 ottobre 1977 poteva privarli del tanto agognato e meritato successo planetario. I padri del rock sudista lo saranno per sempre: tutti gli altri dietro di loro.


LA PIVA DAL CARNÈR - M’han presa ind_b.jpg
 

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Gruppi di musicisti e ricercatori preziosi come Cantovivo e La Ciapa Rusa furono fra quelli che diedero il via al cosiddetto folk revival, almeno per l’area del nord Italia, visto che al centro e, soprattutto, al sud le tradizioni sono sempre state vive e vegete. La musica popolare fu riportata in auge anche nella nostra regione (Emilia Romagna) e, negli anni novanta, La Piva dal Carnèr (da Reggio Emilia) fece tornare a ballare giovani e vecchi, donando nuovi colori a brani e canti antichi. Riattualizzarono le nostre radici e lo fecero con spirito di abnegazione, innegabili capacità, profondo rispetto. Il loro secondo disco, uscito nel 1997, si intitola “M’han presa” ed è uno scrigno pieno di prodigiose, splendide, raffinate armonie. Il mio grande amico Paolo Simonazzi, polistrumentista d’eccezione nonché costruttore di strumenti musicali, affiancato dai validissimi Walter Rizzo, Marco Mainini e Claudio “Pesky” Caroli, riuscirono in quel che altri, talvolta, sfiorarono o fallirono: creare un vero capolavoro. Trattasi di balsamo per l’anima: sistema se non si sta bene, amplifica la propria felicità se lo si sta. Da tenere stretto e divulgare per importanza assoluta.


URIAH HEEP - Salisbury ind_b.jpg
 

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“Salisbury”, pubblicato nel 1971, fu il primo disco rock di cui mi innamorai. Avevo sei anni. Ogni giorno ringrazio il mio povero zio che mi fece scoprire gli inglesi Uriah Heep, insieme a Led Zeppelin, Black Sabbath e Deep Purple. L’inizio potente e granitico di “Bird of Prey” mi fece allargare i miei orizzonti musicali, “The Park” mi fece iniziare a sognare ad occhi aperti, “Time to Live” mi catapultò nel mondo dell’hard rock, “Lady in Black” mi fece capire cosa fosse una hit, “High Priestess” mi irradiò di ritmo, “Salisbury” mi donò il concetto e il piacere di ascoltare per la prima volta un’opera rock (no, non è solo una suite). Poi vennero tutti gli altri loro album, che comprai prima in vinile, poi in cd, poi vennero le remaster series, poi le deluxe, i libri, le vhs, i dvd, i blu-ray, i concerti dal vivo. Ho tutto di loro, perché li amo.


BURT BACHARACH – Portrait in Music ind_b.jpg
 

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Il più grande compositore statunitense dal dopoguerra ad oggi è Burt Bacharach. Maestro dell’easy listening, poi ribattezzata lounge, ha travalicato mode e generi musicali, cambiando l’approccio verso l’ascolto della musica, sempre con garbo, classe ed eleganza. Insieme al paroliere Hal David sfornarono canzoni memorabili che profumano di enernità. Interpretato da tantissimi artisti, prima fra tutte Dionne Warwick, Bacharach ha vinto una quasi infinita serie di premi, come giusti riconoscimenti nei confronti della sua arte universale. “Portrait in Music”, del 1971, racchiude le migliori versioni dei suoi brani più famosi; è una pacchia udire queste melodie, che regalano serenità, benessere, spensieratezza. Probabilmente è stato il primo disco che ho ascoltato nella mia vita, e di questo devo ringraziare mio padre, grande esperto soprattutto di musica Classica e Lirica. Il nesso? Burt Bacharach sarà la Classica del futuro. Ascoltare per credere. Quindi non solo “Promises, promises”, ma anche “What the world needs now is love”…


 

Autore : Andrea Pintelli, Ottobre 2024