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WILCO

YANKEE HOTEL FOXTROT

Il più bel disco che non sarebbe dovuto uscire


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Nel raccontare la storia di Yankee Hotel Foxtrot, il terzo e decisivo album dei Wilco, si potrebbe quasi riempire un libro senza nemmeno accennare ai suoi contenuti musicali. Le undici tracce che lo compongono sono infatti il frutto di una serie di evoluzioni artistiche, litigi personali, traversie legali che, almeno a memoria di chi scrive, difficilmente sono rintracciabili in altri dischi.

Cercando di dare un ordine all’infinità di eventi, cominciamo dal titolo: le number stations erano misteriose stazioni radio comparse sulle onde corte un po’ ovunque nel mondo verso la fine della Prima Guerra Mondiale. Per ventiquattro ore trasmettevano voci che senza alcuna espressione, quasi robotiche, pronunciavano misteriose sequenze alfanumeriche e parole in codice immerse in un mare di rumore. La loro natura non è stata chiarita con certezza nemmeno ai giorni nostri ma l’interpretazione più diffusa è che fossero dei messaggi in codice che i governi dell’epoca mandavano alle proprie spie. Fu un tale Akin Fernandez nel 1998 a raccogliere più di 100 di questi messaggi in un box di quattro CD intitolato The Conet Project. È la quarta traccia di questa raccolta ad attirare in particolare l’attenzione di Jeff Tweedy, il leader dei Wilco, che inizia a sentirla a ripetizione sullo stereo dell’auto. La traccia si intitola Phonetic Alphabet – Nato e al suo interno si può sentire la voce di un probabile agente del Mossad, il servizio segreto israeliano, ripetere in loop le parole che danno il titolo al disco, distanziate una dall’altra: «Yankee…Hotel…Foxtrot». Si trovano anche all’interno del disco, alla fine della penultima traccia, Poor Places.

Agli inizi degli anni Duemila la tavola sembra apparecchiata alla perfezione per i Wilco: i tre album precedenti (A.M. del 1995, Being There del 1996 e Sumerteeth del 1999) hanno creato una solida fanbase in tutti gli Stati Uniti. I suoni sono quelli dell’America più tradizionale, del blues e soprattutto del country, verniciati però a fresco dai suoni e dalle sperimentazioni della musica alternativa e indipendente che così tanto spazio era riuscita a ritagliarsi in quegli anni anche nei canali più mainstream. È però il progetto Mermaid Avenue che per il grande pubblico accende i riflettori sui Wilco. Succede che Nora, la figlia di Woody Guthrie, scopre un migliaio di testi del padre nessuno dei quali aveva una musica ma solo alcune sporadiche note a margine. Nora contatta Billy Bragg il quale a sua volta chiama in causa i Wilco. Il disco esce nel 1998 col nome appunto di Mermaid Avenue e nonostante le vendite non milionarie è sulla bocca di tutti per la sorprendente capacità di abbinare testi datati a suoni moderni, senza correre il rischio di risultare posticcio.

La Reprise, l’etichetta dei Wilco, di proprietà della Warner, decide di lasciar loro parecchia libertà e il gruppo la sfrutta per creare l’ambiente più rilassato possibile. Decidono di svolgere tutta la fase creativa in un loft di loro proprietà. I lavori procedono alla grande e l’intenzione è quella di distaccarsi sempre di più dai suoni tradizionali e spingere sulle sperimentazioni il più possibile. Destroy è la parola che Jeff Tweedy ripete più spesso nelle interviste di quel periodo: appena una canzone sembra finita, riprendono in mano la parti di tutti gli strumenti per capire se ci può essere una modalità diversa per farla suonare in maniera ancora più convincente. Un grosso apporto a questo approccio arriva da Glenn Kotche, il nuovo batterista della band, che da subito si trova a meraviglia con Jeff Tweedy e che non ha alcuna remora a suonare qualsiasi tipo di percussione e a utilizzare qualsiasi tipo di effetto. È il disco più “democratico” del gruppo, quello in cui ogni componente apporta qualcosa di davvero decisivo ad ogni singola composizione, la cui creazione non è più affidata al solo Tweedy. Un processo del genere richiede un grosso dispendio di soldi ma soprattutto di tempo, circostanze che iniziano a far storcere il naso alla Reprise, ansiosa di mettere sul mercato il disco e capitalizzare l’interesse formatosi attorno alla band. Le canzoni però fluiscono senza fatica e in grande quantità e la macchina creativa dei Wilco sembra perfettamente oliata.

I primi problemi interpersonali arrivano quando è il momento di entrare in studio per l’editing e il missaggio, in pratica le fasi di rifinizione del disco, quelle che definiscono il suono che resterà nelle orecchie degli ascoltatori. Gli attriti più frequenti sono quelli tra Tweedy e Jay Bennet, polistrumentista e “numero due” del gruppo, da sempre protagonista nella fase di composizione. C’è poi una ulteriore battaglia che Tweedy è suo malgrado costretto a combattere quasi ogni giorno: quella contro una forma particolarmente aggressiva di emicrania che lo accompagna fin da bambino e che si acuisce nei momenti di maggiore stress; durante le sessioni in studio è spesso costretto a mollare tutto, infilare la testa nella tazza di un water e vomitare anche le budella.

Alla Reprise intanto cresce il nervosismo verso la band. Se ne va il presidente Howie Klein, grande ammiratore dei Wilco e il suo sostituto non mostra altrettanta fiducia, specie dopo aver ascoltato i primi estratti del nuovo disco: non c’è un tema conduttore ben identificato, il suono sembra sempre più distante da quello che ha fatto guadagnare al gruppo un seguito sempre crescente e soprattutto non c’è un singolo da poter spingere attraverso le radio. Vengono avanzate richieste di modifica dei brani verso una direzione più commerciale e i Wilco, decisi a compiere una svolta decisa e decisiva nel loro percorso artistico, rifiutano senza tanti complimenti. Ulteriore curiosità: la data di pubblicazione inizialmente concordata con l’etichetta è l’11 Settembre 2001, non esattamente una data come le altre e in copertina ci sono due torri, quelle del complesso di Marina City di Chicago, città natale dei nostri. Dopo giorni di trattative estenuanti si compie la rottura con la Reprise che decide di risolvere definitivamente il contratto e lascia ai Wilco tutti i diritti dietro il pagamento di cinquantamila dollari.

La situazione per il gruppo è paradossale: il disco è praticamente pronto ed è forse il più atteso nell’ambiente ma allo stato attuale non hanno nemmeno più un contratto discografico. Incoraggiati anche dal manager che riferisce di avere comunque numerosi contatti con altrettante etichette potenzialmente disposte a pubblicare l’album, decidono di partire per un piccolo tour col fine di raccattare i soldi necessari a rifinire il disco in attesa di trovare un contratto. La vita on the road e la conseguente convivenza forzata fanno esplodere i contrasti interni e Jay Bennet viene definitivamente estromesso. Per un esterno è impossibile stabilire colpe e ragioni: per Jeff Tweedy la tossicodipendenza di Jay Bennet ha toccato limiti non più tollerabili (morirà di overdose nel 2009), richiedendo attenzioni che il gruppo non è in grado di dare, per Jay Bennet la sua importanza all’interno del gruppo è diventata una minaccia per Jeff Tweedy che ha preferito farlo fuori prima che diventasse più importante di lui.

Sono gli anni in cui internet vive uno sviluppo esponenziale e nel campo musicale la sensazione è quella di vivere in un Far West. Quasi tutto il materiale circola senza remore e senza regole. Nel pentolone ci finiscono anche i nastri con le registrazioni quasi definitive dei nuovi brani dei Wilco che iniziano a circolare senza alcun controllo da parte del gruppo. La decisione della band è drastica, tutt’altro che comune ai tempi e non facile da prendere dal punto di vista commerciale: attraverso il sito ufficiale pubblicano tutto il disco e lo rendono disponibile a chiunque voglia scaricarlo.

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L’album è un piccolo gioiello; è il disco che consiglierei ad un mio amico che volesse avvicinarsi al gruppo, partendo magari dal poker d’assi a metà del disco: War on War, Jesus etc., Ashes of American Flags e Heavy Metal Drummer, le canzoni di più facile fruibilità, le prove lampanti del talento e della capacità compositiva di Tweedy. “Tempo” è per me la parola chiave: non ci sono ritornelli da mandare a memoria già dal primo ascolto e, specie all’inizio e alla fine del disco, il gruppo pesta il piede sul pedale della sperimentazione ma se si ha la pazienza di ascoltarlo qualche volta di più è un album che regalerà gli stessi piaceri anche tra vent’anni. Non segue nessuna moda e questo lo rende sorprendente ad ogni ascolto, soprattutto per il gusto di riuscire ad impastare il piano Rhodes della Fender con i suoni elettronici, i violini con i sintetizzatori.

L’accoglienza è ottima sia da parte della critica che da parte dei fan, con numerosi brani che diventeranno presenze fisse nei loro concerti. È la Nonesuch a mettere sotto contratto la band e il disco vedrà la sua pubblicazione ufficiale il 23 Aprile 2002. Ironia della sorte, la Nonesuch è di proprietà della Warner, così come la Reprise che li aveva mollati; di fatto la Warner ha pagato due volte per la pubblicazione dello stesso disco. 

Ad oggi è il disco più venduto della band, con oltre cinquecentomila copie vendute nei soli Stati Uniti. Rolling Stone lo ha messo al terzo posto nella classifica dei migliori dischi del decennio. L’ultimo album della band si intitola Cruel Country ed è stato pubblicato il 27 Maggio di quest’anno.
 
Proposta di Ascolto (clic the pic)
 
cr.jpg  Yankee Hotel Foxtrot (full album)
 

Autore : Federico Piva, 10/10/2022