Estate
1969: bastano queste due parole e scommetto che a buona parte dei lettori la
prima associazione pavloviana è con Woodstock e col suo festival. C’è un
film-documentario, in Italia si trova su Disney Plus, che dimostra che quello
di Woodstock non è stato l’unico festival di quell’anno e con ogni probabilità
(perdonate l’ardire ma guardatelo e poi ne riparliamo) nemmeno il più importante.
Il titolo è Summer of Soul e racconta
la storia dell’Harlem Cultural Festival, tenutosi per sei week-end consecutivi
al Mount Morris Park (che oggi si chiama Marcus Garvey Park) nel cuore di
Harlem, a soli centosessanta chilometri da Woodstock. Ha radunato in quel parco
circa trecentomila persone, la stragrande maggioranza delle quali di pelle nera
(durante la visione del film ho contato otto persone di pelle bianca). La
parole dal palco del Reverendo Jesse Jackson sintetizzano bene la situazione nella
quale si trovava la comunità nera di New York in quell’estate: in una America
che andava sulla Luna ma che nello stesso tempo non riusciva a offrirle alcun
appoggio economico, nel giro di pochi anni aveva perso quattro dei suoi
rappresentanti più amati per morte violenta, John Fitzgerald Kennedy nel 1963,
Martin Luther King nell’Aprile del 1968, Robert Kennedy nel Giugno dello stesso
anno e soprattutto Malcom X nel 1965. La sensazione di abbandono da parte del
sistema americano veniva amplificata, oltre che dalle scene di ordinaria
violenza da parte della polizia nella vita di tutti i giorni, anche dalla
guerra in Vietnam e quella che veniva ritenuta una enorme sproporzione tra il
numero dei bianchi e il numero dei neri mandati a combattere e morire in prima
linea.
Il
movimento di protesta viveva al suo interno una divisione tra l’ala pacifista,
che si limitava ad azioni dimostrative come boicottaggi ai negozi che non
avevano un management sufficientemente nero alla loro guida, e l’ala violenta,
che non esitava a difendere i propri diritti con le armi. A gettare benzina sul
fuoco, la scelta di affidare il servizio di sicurezza alla Pantere Nere,
chiedendo che la polizia rimanesse fuori dall’area del Festival. In realtà
tutto si svolse senza alcun problema di ordine pubblico, con anzi una presenza
discreta della polizia di New York che venne in buona sostanza ignorata e con
il supporto fondamentale di John Lindsay, il sindaco della Grande Mela che,
seppur repubblicano, aveva sempre dimostrato grande vicinanza e supporto alla
cultura afro-americana.
Ma
veniamo alla musica: in quei sei fine settimana, su di un palco abbellito da
uno stupendo pannello decorato con rettangoli multicolori, si sono alternati
tra gli altri uno Stevie Wonder diciannovenne che a un certo punto della sua
esibizione si siede dietro la batteria dimostrando quanto il suo innato talento
abbia ben pochi limiti, seguito come un’ombra da un assistente in giacchina
bianca e dotato di ombrello per evitare che la pioggia rovinasse l’esibizione, B.B.
King all’epoca talento emergente del blues, l’immensa Mahalia Jackson che non sta
troppo bene e allora chiama ad aiutarla una giovanissima Mavis Staples in una
versione che si ferma a un millimetro dalle lacrime di Precious Lord, Take My Hand (la canzone preferita di Martin Luther
King a cui è dedicata), David Ruffin in libera uscita dai Temptations che canta
My Girl in un elegante completo scuro
di lana sotto un battente sole estivo, i 5th Dimension che molti scoprono
essere neri proprio in quell’occasione, Ray Barretto in rappresentanza delle
comunità latino-americane e Nina Simone che guida il pubblico quasi come se fosse
una leader religiosa. Ma la performance più straordinaria, almeno per chi
scrive, è quella di Sly & the Family Stone che semplicemente riscrivono gli
standard delle esibizioni live del periodo: si presentano sul palco con gli
strumenti ancora da accordare e l’accordatura diventa una sorta di scusa per
improvvisare una jam session; con enorme sorpresa dei presenti è il
bianchissimo Gregg Errico a suonare la batteria e addirittura due donne a fare
le strumentiste, Cynthia Robinson alla tromba e Rose Stone alle tastiere; poi
entra lui, Sly Stone, che sembra avere gli stessi cromosomi che una quindicina
di anni dopo porteranno al successo mondiale Prince, due di quei personaggi che
sembrano non sapere fare nient’altro se non stare sul palco. L’altra
parte della bellezza del documentario è il pubblico, quasi tutto di pelle nera
come accennato prima, che vive il gran fermento della Harlem di quel tempo
anche nel modo di vestire. Buona parte degli outfit che sono arrivati
praticamente intatti fino ad oggi - completi gessati, gillet di pelle indossati
senza nulla sotto, dashiki (quelle coloratissime tuniche originarie dell’Africa
occidentale), pantaloni a vita bassa e a zampa di elefante - compongono un
quadro che ha lasciato senza fiato chi si è alternato sul palco al tempo e
lascia senza fiato chi si imbatte nel documentario ai giorni nostri.
Circostanza
ancora più incredibile della bellezza del Festival è che i nastri video sono
rimasti inutilizzati in uno scantinato per cinquanta anni. Appena finita
quell’estate si cercò di piazzarlo come una sorta di Woodstock nera tra i principali
network nazionali che però non dimostrarono alcun interesse. Il merito della
sua riscoperta e di tutto il lavoro di editing va a Questlove, il batterista
dei Roots, che firma l’opera in veste di regista. Penso che le sue parole
tratte da un’intervista del Giugno 2021 a Pitchfork siano la chiusura più
appropriata: «Non voglio fare paragoni o
contrasti con Woodstock, ma è stato solo nel fare questo film che ho pensato,
“Ok, adesso capisco”. Woodstock in sé non è stato l'evento che ha cambiato la
vita. L'evento che ha cambiato la vita è stato il film di Woodstock. Ciò che ha
reso grande Woodstock è stato il fatto che ci è stato detto che Woodstock era
eccezionale. Ho aspettato tanto tempo per aprire finalmente The Beautiful Ones,
l'autobiografia di Prince. C'è un capitolo in cui Prince parla di suo padre che
lo porta a vedere Woodstock. Ha 11 anni e dice: "Questo è quello che
voglio fare". Mi sono seduto su una sedia e mi sono chiesto: “Se questo
film fosse uscito e fosse stato tenuto nella stessa luce e importanza, avrebbe
fatto la differenza nella mia vita?”». Guardate Summer of Soul e poi riparliamo di Woodstock.
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