Violenza
fisica, violenza verbale, droga, prevaricazione, odio: questi sono i temi che
più spesso ricorrono tra i ricordi di gioventù nel rileggere le interviste ai
maggiori esponenti del rock alternativo e indipendente degli anni Novanta. Quella
di Trent Reznor, testa e cuore dei Nine Inch Nails, fa invece eccezione.
Nonostante sia stato uno dei più credibili e più riconoscibili narratori della
disperazione giovanile di quegli anni, la sua è stata una adolescenza
all’insegna della serenità, anche se passata per buona parte in assoluta
solitudine. L’amico con cui si ritrova più spesso nelle infinite giornate
passate nelle campagne della Pennsylvania non è un compagno di scuola né un
vicino di casa. È il 33 giri di The Wall
dei Pink Floyd. La sua collezione di dischi ha già raggiunto dimensioni
ragguardevoli ma sono le paranoie e le disperazioni messe su vinile da Roger
Waters le compagne con cui si ritrova più spesso e più volentieri e che faranno
da fondamenta alle sue creazioni future.
I suoi
ascolti giovanili cominciano pian piano a venire filtrati dalla sua sensibilità
personale e il risultato sono composizioni che Reznor fatica a trasformare in
canzoni soprattutto perché, alla prova dei fatti, non riesce a trasmettere ai
musicisti via via coinvolti come le canzoni dovrebbero suonare. Decide perciò,
pare ispirato da Prince, di fare di necessità virtù: noleggia una batteria
elettronica e impara a suonare da solo il resto degli strumenti che ha deciso
di utilizzare. Il risultato è Pretty Hate
Machine, che esce nel 1989 per la TVT Records. Abbondanti sono gli
inserimenti di sintetizzatori e di elementi ambientali. Non sono un musicista e
mi guardo bene dal dilungarmi su elementi tecnici (“Parlare di musica è come
ballare di architettura”, diceva quel tale) ma, giusto per dare l’idea, è un
genere che viene etichettato come industrial
rock e che qualche anno più tardi, con variazioni minime, farà la fortuna
di Marilyn Manson. Per essere un disco composto in gran parte nella propria
camera (le registrazioni avvennero al Right Track Studio di Cleveland dove
Reznor lavorava come tuttofare) l’accoglienza è stupefacente, con l’album che
si piazza al numero 75 delle classifiche americane.
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La
popolarità raggiunta è già fin troppa per il timido Trent che per il disco
successivo decide di scavare ancora più in profondità: The Downward Spiral esce nel 1994 per la Interscope in America e
per la Island in Europa e diventa una sorta di concept album sullo smarrimento
e sulla disperazione di quel decennio, a cominciare dal titolo. La ricerca
della salvezza per Trent Reznor passa attraverso la droga, l’autodistruzione e
il disprezzo di sé ma anche attraverso la voglia di trovare uno scopo. L’intenzione
è quella di registrare un disco senza un vero singolo ma che diventi una sorta
di mosaico in cui ogni pezzo è importante ma non decisivo. Come a volte succede,
un album che a priori sembra un suicidio commerciale diventa un successo senza
precedenti, almeno nella storia dei Nine Inch Nails: debutta al numero due della
US Billboard 200 e viene certificato disco di platino sia in America (quattro
volte) che in Canada (tre volte). È un disco che diventerà ingombrante nella
vita di Trent Reznor: senza quasi accorgersene la sua vita inizia un po’ alla
volta ad assomigliare sempre di più a quella descritta passo passo in The Downward Spiral.
Quello
che per me è e rimarrà un capolavoro all’interno di un album stupendo è la
canzone di chiusura. Si intitola Hurt
e viene aggiunta all’ultimo. L’intenzione di Reznor è quella di dare una degna
coda ai temi portati avanti nel disco. L’idea che cerca di dare è quella di una
registrazione in presa diretta, quasi come fosse una registrazione ambientale
delle sue parole mentre cammina tra le rovine e le macerie che ha creato
durante le tredici tracce precedenti. Quella che sembra la registrazione più
semplice richiede invece un lavoro certosino: l’apertura e la chiusura sono
affidate a una sorta di rumore bianco non si sa bene se elettronico o prodotto
da uno strumento, la voce è sincera molto più che intonata, viene nascosta
nella musica e, ascoltandola in cuffia, ci si accorge che non è perfettamente
centrata tra i due canali ma leggermente spostata sul canale destro. L’idea di
Reznor, resa alla perfezione, è quella di doversi piegare in avanti per
distinguere i suoni. Addirittura sul finale le parole sono completamente
sovrastate da una chitarra elettrica distorta che arriva all’improvviso a
tagliare in due le casse. È davvero difficile renderne a parole la potenza.
Molto meglio ascoltarla direttamente, se possibile in cuffia e col testo
davanti, cliccando sulla immagine qui sotto:
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Il brano
diventa ben presto un piccolo inno della gioventù alternativa che trova nei
Nine Inch Nails degli interpreti eccezionalmente credibili di certi abissi interiori.
Nel 1996 viene nominato ai Grammy per la categoria Best Rock Song.
Il tour
promozionale del disco prende il nome di Self
Destruct Tour e li porterà a condividere i palchi americani con l’artista
forse più idolatrato da Trent Reznor in gioventù: David Bowie. Gli show si
svolgono con i Nine Inch Nails a suonare nella prima parte, raggiunti da Bowie
e la sua band per gli ultimi cinque brani e David Bowie a concludere il
concerto senza i Nine Inch Nails. L’esecuzione condivisa di Hurt è strabiliante e la trasforma in
una canzone diversa. La potete ascoltare e vedere qui sotto:
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Trent
Reznor ricorda così quelle esibizioni: «Uno dei momenti più belli della mia
vita è stato stare sul palco di fianco a David Bowie mentre cantava Hurt con me. Mi sembrava di osservarmi
dall’esterno mentre pensavo: “Sono sul palco di fianco alla mia più importante
influenza musicale mentre canta una canzone che ho scritto nella mia camera”. È
stato un momento semplicemente incredibile.»
La
canzone sembra essere definitivamente consegnata al suo status di classico
degli anni Novanta quando all’improvviso nel 2002 si trasforma in un brano
ancora differente. L’intuizione è di Rick Rubin, uno dei più famosi produttori
americani e da tempo ammiratore dei Nine Inch Nails, che in quel momento sta
lavorando al quarto disco della serie American
Recordings di Johnny Cash. L’idea è quella di far incontrare la leggenda
della tradizione americana con qualche brano più recente soprattutto in ambito
pop e rock. A Rubin il testo di Hurt
sembra perfetto per la situazione in cui si trova Johnny Cash, provato da una
lunga malattia. Il brano, come buona parte delle registrazioni delle American Recordings, punta tutto sulla
voce di Cash, accompagnato in maniera molto rispettosa dalla chitarra acustica
di Mike Campbell e dal piano di Benmont Tench. La resa del brano inizialmente
non convince molto Trent Reznor soprattutto per il vocione che Cash esibisce in
questo come in quasi tutti i suoi brani.
L’elemento
che inaspettatamente cambia le carte in tavola è il video. Il regista è Mark
Romanek che decide di girarlo alla House
of Cash, la residenza-museo chiusa da anni e ormai in stato di abbandono.
Le immagini giocano tutte sul profondo contrasto tra la forza e la vitalità di
Johnny Cash nel fiore dei suoi anni e quello attuale, ormai consumato dalla
malattia che lo porterà alla morte da lì a pochi mesi. Al suo fianco nel video
c’è l’adorata moglie June Carter. Il testo viene mantenuto praticamente
identico (solo il verso I wear this crown
of shit viene trasformato in un più radiofonico I wear this crown of thorns) ma, incredibilmente, il significato
cambia. I tormenti giovanili di Trent Reznor per non riuscire a trovare il
proprio posto nel mondo qui diventano l’epitaffio di uno dei più famosi
esponenti della musica leggera americana mentre guarda con nostalgia alla sua
vita piena di soddisfazioni ma anche di sofferenze. Il verso finale è quello
che rende meglio il differente significato che riesce ad avere uno stesso testo
ed è anche la bugia che spesso ci raccontiamo nei momenti più bui per darci
coraggio: If I could start again a million
miles away, I would keep myself, I would find a way (“Se potessi
ricominciare a un milione di chilometri da qui, saprei mantenermi, riuscirei a
trovare un modo”). Ma anche qui, più che leggere le sbrodolate del semplice
appassionato che vi scrive, vale la pena gustarsi il capolavoro con un rapido
clic:
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Il video
fa cadere tutte le resistenze di Trent Reznor. Lo vede per la prima volta insieme
a Zac De La Rocha, ex cantante dei Rage Against the Machine, in una pausa dalle
lavorazioni al disco di quest’ultimo: “Quel video mi ha tolto il respiro, è
stato straziante. Mi sono sentito come se avessi perso la ragazza perché a quel
punto quella canzone non era più mia. Davvero mi ha fatto pensare a quanto sia
potente la musica come forma d’arte.”
Il
singolo inciso da Johnny Cash e il video fanno incetta di premi e
riconoscimenti in tutto il mondo. Per chi scrive elencarli non ha molto senso: leggere
una lista di premi non aggiungerebbe nulla a uno di quei brani per cui provo
una sincera invidia verso quelli che non hanno ancora avuto modo di ascoltarlo
e vederlo perché questi ultimi hanno un privilegio che a me è ormai negato: lo
stupore del primo ascolto.
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HURT
I
hurt myself today
To see if I still feel
I focus on the pain
The only thing that's real
The needle tears a hole
The old familiar sting
Try to kill it all away
But I remember everything
What
have I become
My sweetest friend
Everyone I know goes away
In the end
And you could have it all
My empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt
I
wear this crown of thorns
Upon my liar's chair
Full of broken thoughts
I cannot repair
Beneath the stains of time
The feelings disappear
You are someone else
I am still right here
What
have I become
My sweetest friend
Everyone I know goes away
In the end
And you could have it all
My empire of dirt
I will let you down
I will make you hurt
If
I could start again
A million miles away
I would keep myself
I would find a way
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“Trent Reznor was born to write that song, but Johnny
Cash was born to sing it and Mark Romanek was born to film it”. Bono Vox |
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Autore : Federico Piva, 08/05/2022 |
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