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FRANCESCO GUCCINI |
"INCONTRO" |
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Non considero “Incontro”
una bella canzone ma una delle più grandi poesie del Novecento Italiano.
E’ una profonda
evocazione della vecchiaia e di quella sensazione di remoto che coglie alla
fine della gioventù.
E’
uno dei
momenti più lirici ed emozionanti, tra i tanti, del percorso di
Francesco
Guccini, che in pochi morbidi accordi descrive – come dice lui – la
«vacuità
del vivere, il senso del tempo che inesorabile se ne va»,
raccontando situazioni, sensazioni e stati d’animo che ognuno di
noi ha
provato almeno una volta nella vita.
Con leggerezza
parla di sentimenti profondi quali la nostalgia, la felicità mancata, dei
dolorosi strascichi che il passar del tempo ci lascia : “Siamo qualcosa che
non resta, frasi vuote nella testa, ed il cuore di simboli pieno”. |
Il testo
E correndo mi
incontrò lungo le scale
Auto ferme ci
guardavano in silenzio
E le frasi,
quasi fossimo due vecchi
Carte e vento
volan via nella stazione
Come in un
libro scritto male
E pensavo
dondolato dal vagone |
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Incontro è
un brano musicale scritto ed interpretato da Francesco Guccini, contenuto
nell'album Radici pubblicato nel 1972.
Racconta di un
incontro con una amica Modenese dopo dieci anni di mancanza. È una malinconica
occasione per rievocazioni nostalgiche e per constatare i cambiamenti avvenuti
nel tempo.
Guccini spiega
così la genesi del brano:
«La canzone parla
di una mia amica che, bontà sua, era innamorata di me. Era anche molto carina,
ma aveva poche tette e io ero molto sensibile all'argomento. Oggi guardo altre
cose, anche perché sono cambiati i tempi. In quegli anni avere la ragazza senza
tette era un handicap mica da ridere. Con questa ragazza rimanemmo comunque
amici. Diventò professoressa di ginnastica e si sposò con un americano che
viveva a Bologna. Per un po' vissero in America, poi si trasferirono a Berlino
e fu lì che si innamorò di un altro, un tipo piuttosto instabile, purtroppo.
Così, quando a Natale lei raggiunse suo figlio in America, lui fece l'albero e
si impiccò. Al suo ritorno in Italia la mia amica venne subito a cercarmi per
raccontarmi cos'era successo. Andai a trovarla, e dopo quel pomeriggio
trascorso insieme scrissi Incontro, forse il mio primo tentativo di
scrivere per immagini veloci, molto cinematografiche»
Guccini ha
anche raccontato, riguardo a questa sua amica: «tra tutte le ragazze che
conoscevo era la più emancipata [...] quando avevo diciassette anni mi disse
una frase che mi colpì: – Ti rendi conto che io ho ormai sedici anni e non ho
ancora scopato? Magari domani muoio e non ho mai scopato –. Questa frase mi
fece un certo effetto, perché devo confessare che neanche io a diciassette anni
avevo mai goduto di questa leccornia. Sempre di lei mi ricordo che le coprivo
alcune uscite. Le cose andavano così. La Betty mi telefonava e mi chiedeva di
andarla a prendere la sera. Questo voleva dire che io mi presentavo in famiglia
e dicevo: – Buonasera signora, lascia venire la Betty fuori con me? – Uscivamo,
e svoltato l'angolo c'erano dei maschi altissimi con delle spalle enormi che
l'aspettavano. Io, insomma, ringraziavo e andavo via».
Guccini ha anche
chiarito l'origine letteraria di alcuni passaggi del testo: «la tristezza
poi ci avvolse come miele» è ispirato a Suzanne di Leonard
Cohen («il sole si riversa come miele»); «le stoviglie color
nostalgia» è tratto dalla poesia La signorina Felicita ovvero la
Felicità di Guido Gozzano («E gli occhi fermi, l'iridi
sincere | azzurre di un azzurro di stoviglia»); «noi corriamo sempre in
una direzione | ma qual sia e che senso abbia chi lo sa» viene da una frase
di Edmund Husserl citata in un manuale di Anceschi («Il
tutto infinito scorre infinitamente in una direzione, quale sia noi non lo
potremo sapere»). Guccini ha inoltre spiegato: «non è vero che ci siamo
incontrati con lei che mi correva lungo le scale. Però tutto sommato era
carino, sembrava la sequenza di un film di Lelouch al
rallentatore...»
Anche il finale
richiama un'altra poesia di Gozzano, Il gioco del silenzio, in un
punto in cui il poeta, come nella canzone di Guccini, riflette in un treno («Giocosa
amica, il Tempo vola, invola | ogni promessa») |
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Sul Web,
Francesco Guccini, nel corso di un’intervista, ha così analizzato il testo
della sua canzone.
“Incontro”, più
che una canzone malinconica, è tutto sommato una canzone ironica, nata dal
fatto che a Modena c’era una mia amica che tra tutte le ragazze che conoscevo
era la più emancipata. Aveva una madre e una nonna inglesi e si favoleggiava
molto sulle sue origini. Malgrado avesse un nome italianissimo, per tutti era
la Betty. Questa ragazza, con la quale non c’era stato niente di più che
un’amicizia, quando avevo diciassette anni mi disse una frase che mi colpì: –
Ti rendi conto che io ho ormai sedici anni e non ho ancora scopato? Magari
domani muoio e non ho mai scopato -. Questa frase mi fece un certo effetto,
perché devo confessare che neanche io a diciassette anni avevo mai goduto di
questa leccornia. Sempre di lei mi ricordo che le coprivo alcune uscite. Le
cose andavano così. La Betty mi telefonava e mi chiedeva di andarla a prendere
la sera. Questo voleva dire che io mi presentavo in famiglia e dicevo: –
Buonasera signora, lascia venire la Betty fuori con me? Uscivamo, e svoltato
l’angolo c’erano dei maschi altissimi con delle spalle enormi che
l’aspettavano. Io, insomma, ringraziavo e andavo via. Poi ci siamo persi di
vista e dopo quindici anni mi ha telefonato per raccontarmi la sua tristissima
storia.
E correndo
mi incontrò lungo le scale
Questi versi
sono bassamente romantici, lo devo ammettere. Ovviamente non è vero che ci
siamo incontrati con lei che mi correva incontro lungo le scale. Però tutto
sommato era carino, sembrava la sequenza di un film di Lelouch al rallentatore…
la tristezza
poi ci avvolse come miele
Questo è un
verso che mi piace moltissimo. Nasce da Suzanne di Leonard Cohen, quando dice
«Il sole si riversa come miele». Nella mia canzone l’immagine del miele l’ho
usata non come un elemento di dolcezza, ma come qualcosa che si appiccica
addosso.
per il tempo
scivolato su noi due.
L’andare
indietro nel tempo, piangendosi addosso, dicendo – Ti ricordi…
Il sole che
calava già
«Rosseggiava» è
discutibile, probabilmente c’era la necessita di riempire un certo buco metrico
e in quel momento non è venuto fuori altro.
già nostra e
ora
E qui va bene.
Si parla di Modena, ovviamente, che allora era il nostro centro vitale. Poi è
diventata un città diversa, una città che non si riconosce più.
come un
istante déjà vu
Potrebbe
sembrare un verso troppo facile, invece è molto sincero. Perché abbiamo avuto
tutti dei momenti che ti sembra di avere già vissuto. Ovviamente se tu scrivi
«déjà vu» poi devi trovare una rima, allora è saltato fuori «ombra della
gioventù».
ci
circondava la nebbia.
La nebbia è una
presenza.
Auto ferme
ci guardavano in silenzio
È un verso che
può andare bene, anche se non è molto audace.
vecchi muri
proponevan nuovi eroi
Anche in
“Giorno d’estate” c’è una frase più o meno simile, quindi si vede che è un mio
cliché che ogni tanto salta fuori. Riguardo agli eroi, volevo dire che all’età
di sedici-diciassette anni avevamo un certo tipo di miti come James Dean, i
Platters o Elvis, che poi sono completamente cambiati. Mi piaceva l’idea di
sottolineare il passaggio di tanti anni attraverso il segno di questi miti
differenti.
dieci anni
da narrare l’uno all’altro
«Narrare» può
andar bene, c’è anche una ragione metrica.
«Cosa fai
ora? Ti ricordi?
Qui non c’è
proprio niente da dire, è la riproduzione di un dialogo.
E poi la cena
a casa sua
Innanzitutto è
bene spiegare perché «la nuova cortesia». La famiglia della Betty apparteneva a
un ambiente sociale più alto del mio e aveva una casa molto più bella della
mia. Tutto questo mi intimidiva molto, anche perché a quell’età non avevo certo
una coscienza critica molto sviluppata. Trascorsi quindici anni da allora,
ovviamente guardavo le cose in maniera diversa e la mia timidezza di quegli
anni mi sembrava assolutamente ridicola. Ecco il perché della «mia nuova
cortesia». Per quanto riguarda poi «le stoviglie color nostalgia» devo
ammettere che ho rubato questo verso a Gozzano, un poeta che amo molto. Il
verso in questione l’ho tradotto da La signorina Felicita ovvero la
Felicità, quando dice: «E gli occhi fermi, l’iridi sincere | azzurre di una
azzurro di stoviglia». Questa immagine mi era piaciuta. Mi ricordava di quando
ero bambino in montagna e mangiavo in piatti di terracotta molto grossi che
erano tutti ricamati in azzurro.
E le frasi
quasi fossimo due vecchi
Per «i suoi»
intendo i genitori. Qui mi ricollego ancora al discorso della «mia nuova
cortesia».
I nostri
miti morti ormai
La mia
generazione è figlia di quella dei Vittorini e dei Pavese, che hanno tradotto e
diffuso un certo tipo di letteratura americana che faceva capo a Hemingway. La
scoperta di Hamingway per me equivalse a quella dei Platters. Dovete sapere che
quando avevo tredici anni Nilla Pizzi non mi dispiaceva e nemmeno Domenico
Modugno, che allora faceva una trasmissione radiofonica in cui cantava canzoni
come Lu pisci spada. Poi arrivò il rock and roll con tutti i miti
americani. Fu proprio con la Betty che vivemmo tutti questi miti e quando ci
siamo rincontrati erano ormai morti.
il sentirsi
nuovi
La mia
America e la sua
Mi riferisco
sempre all’America. Lei ha sposato un americano e anch’io sono corso negli
Stati Uniti dietro un’americana. Dopo un mese sono ritornato in Italia.
L’America non era propriamente la favola che immaginavo, il maccartismo era
ancora imperante.
Carte e
vento volan via nella stazione
Questo verso
non è che mi faccia impazzire di gioia, è un po’ una caduta. Dovevo descrivere
il momento in cui ci siamo salutati alla stazione ed è venuto fuori questo
clicché.
freddo e
luci accese forse per noi lì
Ecco il momento
più tragico della canzone. È un verso molto brutto. Poi quel «lì» messo alla
fine lo fa sembrare tanto un verso di Pallavicini, che pur di fare un verso
tronco è capace di tutto.
ed infine in
breve la sua situazione
Questo è
carino, a me piace.
uguale quasi
a tanti nostri film:
È vero, la
situazione sembrava proprio quella di tanti film che avevamo visto.
come in un
libro scritto male
La storia è
andata proprio così. Ho precisato «come in un libro scritto male» perché altrimenti
poteva sembrare che fosse una mera invenzione.
Ma il triste
racconto sembrava
Ho scritto
questo, io? L’aggettivo «triste» non è bello, onestamente.
povera amica
che narravi
In un primo
momento la canzone finiva a questo punto. Poi ho sentito il bisogno di
concludere con qualche cosa, di tirare le somme su quello che aveva significato
per me questa esperienza.
E pensavo
dondolato dal vagone
Questa immagine
viene direttamente da: – «Il tutto infinito scorre infinitamente in una
direzione, quale sia noi non lo potremo mai sapere», una frase di Husserl. Non
mentirò dicendo che ho letto Husserl. Si tratta di una frase che ho letto su un
manuale di Anceschi sulla poesia italiana del Novecento.
Restano i
sogni senza tempo
Questo è detto
in maniera un po’ poetica, ma in fondo è vero.
le luci nel
buio
È una cosa che
succede quando vedi un gruppo di case e ti domandi: «Chissà chi vive in quel
posto?»
siamo
qualcosa che non resta
Questo è un
momento in cui l’irrazionale prevale sul razionale. In fondo volevo dire che
siamo gente che si agita e magari non sa dove stia andando.
Note tratte da
“Francesco Guccini” a cura di Vincenzo Mollica – Torino, Einaudi, 2000.
Riportato sul sito www.francescoguccini.net
e raccolto dal sito mariodalfonso.it/blog-post |
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Proposte di Ascolto (clic the pic) |
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Incontro |
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Autore : JJ Saila, Feb.2025 |
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