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FRANCESCO GUCCINI

"INCONTRO"


Non considero “Incontro” una bella canzone ma una delle più grandi poesie del Novecento Italiano.

E’ una profonda evocazione della vecchiaia e di quella sensazione di remoto che coglie alla fine della gioventù.

E’ uno dei momenti più lirici ed emozionanti, tra i tanti, del percorso di Francesco Guccini, che in pochi morbidi accordi descrive – come dice lui – la «vacuità del vivere, il senso del tempo che inesorabile se ne va», raccontando  situazioni, sensazioni e stati d’animo che ognuno di noi ha provato almeno una volta nella vita.

Con leggerezza parla di sentimenti profondi quali la nostalgia, la felicità mancata, dei dolorosi strascichi che il passar del tempo ci lascia : “Siamo qualcosa che non resta, frasi vuote nella testa, ed il cuore di simboli pieno”.


Il testo

E correndo mi incontrò lungo le scale
Quasi nulla mi sembrò cambiato in lei
La tristezza poi ci avvolse come miele
Per il tempo scivolato su noi due
Il sole che calava già rosseggiava la città
Già nostra e ora straniera e incredibile e fredda
Come un istante "déjà vu"
Ombra della gioventù, ci circondava la nebbia

Auto ferme ci guardavano in silenzio
Vecchi muri proponevan nuovi eroi
Dieci anni da narrare l'uno all'altra ma
Le frasi rimanevan dentro in noi
"Cosa fai ora? Ti ricordi
Eran belli i nostri tempi
Ti ho scritto è un anno
Mi han detto che eri ancor via"
E poi la cena a casa sua
La mia nuova cortesia
Stoviglie color nostalgia

E le frasi, quasi fossimo due vecchi
Rincorrevan solo il tempo dietro a noi
Per la prima volta vidi quegli specchi
Capii i quadri, i soprammobili ed i suoi
I nostri miti morti ormai, la scoperta di Hemingway
Il sentirsi nuovi
Le cose sognate e ora viste
La mia america e la sua diventate nella via
La nostra città tanto triste

Carte e vento volan via nella stazione
Freddo e luci accesi forse per noi lì
Ed infine, in breve, la sua situazione
Uguale quasi a tanti nostri film

Come in un libro scritto male
Lui s'era ucciso per natale
Ma il triste racconto sembrava assorbito dal buio
Povera amica che narravi dieci anni in poche frasi
Ed io i miei in un solo saluto

E pensavo dondolato dal vagone
"Cara amica il tempo prende, il tempo dà
Noi corriamo sempre in una direzione
Ma qual sia e che senso abbia chi lo sa
Restano i sogni senza tempo
Le impressioni di un momento
Le luci nel buio di case intraviste da un treno
Siamo qualcosa che non resta
Frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno.

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Incontro è un brano musicale scritto ed interpretato da Francesco Guccini, contenuto nell'album Radici pubblicato nel 1972.

Racconta di un incontro con una amica Modenese dopo dieci anni di mancanza. È una malinconica occasione per rievocazioni nostalgiche e per constatare i cambiamenti avvenuti nel tempo.

 

Guccini spiega così la genesi del brano:

«La canzone parla di una mia amica che, bontà sua, era innamorata di me. Era anche molto carina, ma aveva poche tette e io ero molto sensibile all'argomento. Oggi guardo altre cose, anche perché sono cambiati i tempi. In quegli anni avere la ragazza senza tette era un handicap mica da ridere. Con questa ragazza rimanemmo comunque amici. Diventò professoressa di ginnastica e si sposò con un americano che viveva a Bologna. Per un po' vissero in America, poi si trasferirono a Berlino e fu lì che si innamorò di un altro, un tipo piuttosto instabile, purtroppo. Così, quando a Natale lei raggiunse suo figlio in America, lui fece l'albero e si impiccò. Al suo ritorno in Italia la mia amica venne subito a cercarmi per raccontarmi cos'era successo. Andai a trovarla, e dopo quel pomeriggio trascorso insieme scrissi Incontro, forse il mio primo tentativo di scrivere per immagini veloci, molto cinematografiche»

Guccini ha anche raccontato, riguardo a questa sua amica: «tra tutte le ragazze che conoscevo era la più emancipata [...] quando avevo diciassette anni mi disse una frase che mi colpì: – Ti rendi conto che io ho ormai sedici anni e non ho ancora scopato? Magari domani muoio e non ho mai scopato –. Questa frase mi fece un certo effetto, perché devo confessare che neanche io a diciassette anni avevo mai goduto di questa leccornia. Sempre di lei mi ricordo che le coprivo alcune uscite. Le cose andavano così. La Betty mi telefonava e mi chiedeva di andarla a prendere la sera. Questo voleva dire che io mi presentavo in famiglia e dicevo: – Buonasera signora, lascia venire la Betty fuori con me? – Uscivamo, e svoltato l'angolo c'erano dei maschi altissimi con delle spalle enormi che l'aspettavano. Io, insomma, ringraziavo e andavo via».

 

Guccini ha anche chiarito l'origine letteraria di alcuni passaggi del testo: «la tristezza poi ci avvolse come miele» è ispirato a Suzanne di Leonard Cohen («il sole si riversa come miele»); «le stoviglie color nostalgia» è tratto dalla poesia La signorina Felicita ovvero la Felicità di Guido Gozzano («E gli occhi fermi, l'iridi sincere | azzurre di un azzurro di stoviglia»); «noi corriamo sempre in una direzione | ma qual sia e che senso abbia chi lo sa» viene da una frase di Edmund Husserl citata in un manuale di Anceschi («Il tutto infinito scorre infinitamente in una direzione, quale sia noi non lo potremo sapere»). Guccini ha inoltre spiegato: «non è vero che ci siamo incontrati con lei che mi correva lungo le scale. Però tutto sommato era carino, sembrava la sequenza di un film di Lelouch al rallentatore...»

Anche il finale richiama un'altra poesia di Gozzano, Il gioco del silenzio, in un punto in cui il poeta, come nella canzone di Guccini, riflette in un treno («Giocosa amica, il Tempo vola, invola | ogni promessa»)

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Sul Web, Francesco Guccini, nel corso di un’intervista, ha così analizzato il testo della sua canzone.

 

“Incontro”, più che una canzone malinconica, è tutto sommato una canzone ironica, nata dal fatto che a Modena c’era una mia amica che tra tutte le ragazze che conoscevo era la più emancipata. Aveva una madre e una nonna inglesi e si favoleggiava molto sulle sue origini. Malgrado avesse un nome italianissimo, per tutti era la Betty. Questa ragazza, con la quale non c’era stato niente di più che un’amicizia, quando avevo diciassette anni mi disse una frase che mi colpì: – Ti rendi conto che io ho ormai sedici anni e non ho ancora scopato? Magari domani muoio e non ho mai scopato -. Questa frase mi fece un certo effetto, perché devo confessare che neanche io a diciassette anni avevo mai goduto di questa leccornia. Sempre di lei mi ricordo che le coprivo alcune uscite. Le cose andavano così. La Betty mi telefonava e mi chiedeva di andarla a prendere la sera. Questo voleva dire che io mi presentavo in famiglia e dicevo: – Buonasera signora, lascia venire la Betty fuori con me? Uscivamo, e svoltato l’angolo c’erano dei maschi altissimi con delle spalle enormi che l’aspettavano. Io, insomma, ringraziavo e andavo via. Poi ci siamo persi di vista e dopo quindici anni mi ha telefonato per raccontarmi la sua tristissima storia.

 

E correndo mi incontrò lungo le scale
quasi nulla mi sembrò cambiato in lei

Questi versi sono bassamente romantici, lo devo ammettere. Ovviamente non è vero che ci siamo incontrati con lei che mi correva incontro lungo le scale. Però tutto sommato era carino, sembrava la sequenza di un film di Lelouch al rallentatore…

 

la tristezza poi ci avvolse come miele

Questo è un verso che mi piace moltissimo. Nasce da Suzanne di Leonard Cohen, quando dice «Il sole si riversa come miele». Nella mia canzone l’immagine del miele l’ho usata non come un elemento di dolcezza, ma come qualcosa che si appiccica addosso.

 

per il tempo scivolato su noi due.

L’andare indietro nel tempo, piangendosi addosso, dicendo – Ti ricordi…

 

Il sole che calava già
rosseggiava la città

«Rosseggiava» è discutibile, probabilmente c’era la necessita di riempire un certo buco metrico e in quel momento non è venuto fuori altro.

 

già nostra e ora
straniera e incredibile e fredda;

E qui va bene. Si parla di Modena, ovviamente, che allora era il nostro centro vitale. Poi è diventata un città diversa, una città che non si riconosce più.

 

come un istante déjà vu
ombra della gioventù

Potrebbe sembrare un verso troppo facile, invece è molto sincero. Perché abbiamo avuto tutti dei momenti che ti sembra di avere già vissuto. Ovviamente se tu scrivi «déjà vu» poi devi trovare una rima, allora è saltato fuori «ombra della gioventù».

 

ci circondava la nebbia.

La nebbia è una presenza.

 

Auto ferme ci guardavano in silenzio

È un verso che può andare bene, anche se non è molto audace.

 

vecchi muri proponevan nuovi eroi

Anche in “Giorno d’estate” c’è una frase più o meno simile, quindi si vede che è un mio cliché che ogni tanto salta fuori. Riguardo agli eroi, volevo dire che all’età di sedici-diciassette anni avevamo un certo tipo di miti come James Dean, i Platters o Elvis, che poi sono completamente cambiati. Mi piaceva l’idea di sottolineare il passaggio di tanti anni attraverso il segno di questi miti differenti.

 

dieci anni da narrare l’uno all’altro
ma le frasi rimanevan dentro in noi.

«Narrare» può andar bene, c’è anche una ragione metrica.

 

«Cosa fai ora? Ti ricordi?
Eran belli i nostri tempi!
Ti ho scritto è un anno
mi han detto che eri ancor via».

Qui non c’è proprio niente da dire, è la riproduzione di un dialogo.

 

E poi la cena a casa sua
la mia nuova cortesia
stoviglie color nostalgia.

Innanzitutto è bene spiegare perché «la nuova cortesia». La famiglia della Betty apparteneva a un ambiente sociale più alto del mio e aveva una casa molto più bella della mia. Tutto questo mi intimidiva molto, anche perché a quell’età non avevo certo una coscienza critica molto sviluppata. Trascorsi quindici anni da allora, ovviamente guardavo le cose in maniera diversa e la mia timidezza di quegli anni mi sembrava assolutamente ridicola. Ecco il perché della «mia nuova cortesia». Per quanto riguarda poi «le stoviglie color nostalgia» devo ammettere che ho rubato questo verso a Gozzano, un poeta che amo molto. Il verso in questione l’ho tradotto da La signorina Felicita ovvero la Felicità, quando dice: «E gli occhi fermi, l’iridi sincere | azzurre di una azzurro di stoviglia». Questa immagine mi era piaciuta. Mi ricordava di quando ero bambino in montagna e mangiavo in piatti di terracotta molto grossi che erano tutti ricamati in azzurro.

 

E le frasi quasi fossimo due vecchi
rincorrevan solo il tempo dietro a noi
per la prima volta vidi quegli specchi
capii i quadri i soprammobili ed i suoi.

Per «i suoi» intendo i genitori. Qui mi ricollego ancora al discorso della «mia nuova cortesia».

 

I nostri miti morti ormai
la scoperta di Hemingway

La mia generazione è figlia di quella dei Vittorini e dei Pavese, che hanno tradotto e diffuso un certo tipo di letteratura americana che faceva capo a Hemingway. La scoperta di Hamingway per me equivalse a quella dei Platters. Dovete sapere che quando avevo tredici anni Nilla Pizzi non mi dispiaceva e nemmeno Domenico Modugno, che allora faceva una trasmissione radiofonica in cui cantava canzoni come Lu pisci spada. Poi arrivò il rock and roll con tutti i miti americani. Fu proprio con la Betty che vivemmo tutti questi miti e quando ci siamo rincontrati erano ormai morti.

 

il sentirsi nuovi
le cose sognate e ora viste

La mia America e la sua
diventate nella via
la nostra città tanto triste.

Mi riferisco sempre all’America. Lei ha sposato un americano e anch’io sono corso negli Stati Uniti dietro un’americana. Dopo un mese sono ritornato in Italia. L’America non era propriamente la favola che immaginavo, il maccartismo era ancora imperante.

 

Carte e vento volan via nella stazione

Questo verso non è che mi faccia impazzire di gioia, è un po’ una caduta. Dovevo descrivere il momento in cui ci siamo salutati alla stazione ed è venuto fuori questo clicché.

 

freddo e luci accese forse per noi lì

Ecco il momento più tragico della canzone. È un verso molto brutto. Poi quel «lì» messo alla fine lo fa sembrare tanto un verso di Pallavicini, che pur di fare un verso tronco è capace di tutto.

 

ed infine in breve la sua situazione

Questo è carino, a me piace.

 

uguale quasi a tanti nostri film:

È vero, la situazione sembrava proprio quella di tanti film che avevamo visto.

 

come in un libro scritto male
lui s’era ucciso per Natale.

La storia è andata proprio così. Ho precisato «come in un libro scritto male» perché altrimenti poteva sembrare che fosse una mera invenzione.

 

Ma il triste racconto sembrava
assorbito dal buio

Ho scritto questo, io? L’aggettivo «triste» non è bello, onestamente.

 

povera amica che narravi
dieci anni n poche frasi
ed io i miei in una solo saluto

In un primo momento la canzone finiva a questo punto. Poi ho sentito il bisogno di concludere con qualche cosa, di tirare le somme su quello che aveva significato per me questa esperienza.

 

E pensavo dondolato dal vagone
«Cara amica, il tempo prende, il tempo dà
noi corriamo sempre in una direzione
ma qual sia e che senso abbia chi lo sa».

Questa immagine viene direttamente da: – «Il tutto infinito scorre infinitamente in una direzione, quale sia noi non lo potremo mai sapere», una frase di Husserl. Non mentirò dicendo che ho letto Husserl. Si tratta di una frase che ho letto su un manuale di Anceschi sulla poesia italiana del Novecento.

 

Restano i sogni senza tempo
le impressioni di un momento

Questo è detto in maniera un po’ poetica, ma in fondo è vero.

 

le luci nel buio
di case intraviste da un treno;

È una cosa che succede quando vedi un gruppo di case e ti domandi: «Chissà chi vive in quel posto?»

 

siamo qualcosa che non resta
frasi vuote nella testa
e il cuore di simboli pieno.

Questo è un momento in cui l’irrazionale prevale sul razionale. In fondo volevo dire che siamo gente che si agita e magari non sa dove stia andando.

 

Note tratte da “Francesco Guccini” a cura di Vincenzo Mollica – Torino, Einaudi, 2000. Riportato sul sito www.francescoguccini.net e raccolto dal sito mariodalfonso.it/blog-post

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Autore : JJ Saila, Feb.2025