«Ma cosa
cazzo è? Il capannone di un carrozziere?». Più o meno sono state queste le prime
parole di Joe Strummer quando ai Clash hanno aperto le porte dei Vanilla
Studios.
La cosa
curiosa è che a ripensarci oggi dopo più di quarant’anni è molto probabile che
sia stato quel posto a salvare la vita della band. Sono in una stradina interna
vicina a Pimlico, nella loro amata e odiata Londra. È impossibile accorgersi
della loro presenza se non te li vai a cercare in un dedalo di stradine
interne. E anche una volta che li hai trovati, devi passare un serie di porte e
spazi prima di arrivare agli studi veri e propri. I Clash arrivano dalla
pubblicazione di due dischi per certi versi opposti tra loro e dall’assurdo
mondo che si apre quando un gruppo azzecca il disco d’esordio. Il loro primo
album si chiama semplicemente The Clash
ed è stato pubblicato in Inghilterra a metà del 1977 dalla CBS anche sull’onda
dell’ovazione che hanno ricevuto ad uno dei loro primi concerti, durante il Punk Rock Festival a Londra. Ha venduto
benissimo da subito e sono partiti verso l’Europa con il White riot tour insieme ai Buzzcocks e ai Jam che facevano da
gruppo spalla. Quelli della CBS continuavano a pensare che il suono fosse
troppo grezzo e si ostinavano a non volerlo pubblicare negli Stati Uniti. Il
risultato è stato che è diventato il disco di importazione più venduto in
America. Solo dopo che è arrivato il riconoscimento, e quindi con due anni di
ritardo e addirittura dopo aver pubblicato il secondo disco, hanno deciso di
pubblicarlo anche negli States, premurandosi però di censurare I’m so bored with the U.S.A.. Dio solo
sa quanto sono stati addosso ai Clash per convincerli ad addolcire i suoni in
vista del secondo album. Bernie Rhodes, il manager che è con il gruppo dal
primo giorno, ha avuto il suo bel da fare per tentare di mediare uno strappo
che rischiava di diventare un enorme squarcio. La soluzione è stata un
compromesso che non ha accontentato nessuno: è stato Sandy Pearlman a produrre Give ‘em enough rope che è uscito a
Novembre del 1978 ma il riscontro commerciale è stato a dir poco deludente. Hanno
rischiato di perdere i fan della prima ora senza acquisirne di nuovi. È lì che
ha cominciato a formarsi quella che Joe
Strummer chiama con disprezzo la polizia del punk: ascoltatori, giornalisti,
discografici, opinionisti televisivi che si mettevano una toga e decidevano di
giudicare quello che è punk e quello che non lo è. Loro ovviamente finivano
regolarmente tra gli eretici.
Tutto
questo per dire che a quel punto i Clash hanno un enorme bisogno di staccare da
quel delirio; dal delirio di quelli che urlano per loro e di quelli che urlano
loro contro, di quelli che spiegano loro come suonare senza aver mai preso in
mano uno strumento e di quelli che li elevano a loro guida ignorando completamente
i concetti che vorrebbero condividere attraverso i testi, di quelli che
insistono che il suono è troppo grezzo e di quelli che scrollano la testa dando
loro dei venduti.
Ai
Vanilla Studios ci sono arrivati dopo che hanno definitivamente rotto con
Bernie Rhodes e si sono di conseguenza giocati la possibilità di utilizzare i loro
studi storici. Ci possono arrivare senza che nessuno li fermi per strada e hanno
perciò cominciato ad andarci ognuno per conto proprio. C’è un cortiletto appena
fuori dalla sala in cui provano e uno dei primi giorni Mick Jones ha portato un
pallone. Da allora senza programmarlo hanno preso un’abitudine: i primi che
arrivano, per ingannare l’attesa iniziano a fare qualche palleggio tra loro. Ogni
nuovo arrivato invece che pensare agli strumenti si unisce ai palleggi finché
tra loro e i tecnici si arriva a dieci. In quel momento si dà inizio a una
partita a calcio cinque contro cinque negli spazi minimi del cortiletto. Mick è
il più veloce, Topper Headon è il più tecnico, Joe Strummer è il faticatore,
quello che recupera più palloni e Paul lo scarpone e di conseguenza il
picchiatore: diverse volte segna perché quando ha la palla in molti
preferiscono spostarsi piuttosto che rischiare la funzionalità di una gamba. La
partita finisce quando fisicamente non ce la fanno più ed è allora che iniziano
a suonare.
Sarà la
tranquillità che mancava da troppi mesi, saranno le partite tiratissime ma si
iniziano a conoscere soci come mai si erano conosciuti prima. Mentre si
risistemano sudati e ognuno con tempi diversi, si mettono a strimpellare per
scaldarsi ed è lì che vengono fuori i gusti musicali di ciascuno che per
assurdo nessuno aveva mai indagato a fondo. Joe Strummer prende confidenza al
piano e The man in me di Bob Dylan
sembra scritta da lui, Topper Headon inizia a picchiare sulle pelli con Mona di Bo Diddley, Mick Jones rimette
in funzione le dita con You can’t judge a
book by its cover e Paul Simonon fa girare qualche riff di musica
giamaicana, la sua passione storica. E le canzoni arrivano in quantità
esagerate e senza sforzi. Il cambio di direzione, per quanto semplice, è per loro
epocale. Da quelle improvvisazioni sono nati dei brani che toccano una infinità
di generi e così li lasciano, evitando di sottoporli a continue modifiche per
farli diventare delle canzoni punk come avevano fatto nei primi due dischi. La
prova più lampante di questo torrenziale e libero flusso creativo è che per la
prima volta tutti hanno partecipato alla stesura dei brani mentre prima Mick si
occupava di gran parte delle musiche e Joe Strummer scriveva gran parte dei
testi. Alla fine di quei pochi giorni ai Vanilla Studios sono pronti i demo di
praticamente tutti i brani completi di arrangiamenti. Adesso si tratta di
entrare in uno studio di registrazione e incidere il disco.
Nonostante
l’atmosfera quasi idilliaca il passo non è così semplice e a dirla tutta si
tratta di un dentro o fuori. È il
bivio a cui si trovano tantissimi gruppi il cui terzo disco arriva dopo un
esordio stupefacente e un secondo album non allo stesso livello. Insomma per
metterla giù in modo più drammatico, è un disco decisivo, visto anche che la
CBS ci ha tenuto a far sapere loro che non avrebbe tollerato un altro buco
nell’acqua dopo Give ‘em enough rope.
La scelta più difficile è stata quella del produttore a cui affidare il suono
che avrebbero dovuto avere tutti quei brani già pronti nella loro versione più
grezza. Stavolta toccava solo a loro la scelta, senza nemmeno l’aiuto di Bernie
Rhodes che avendo fatto da manager dal giorno in cui sono nati come band li
aveva spesso guidati in questo tipo di scelte.
C’è
questo tizio. Si chiama Guy Stevens. Bazzicava spesso gli ambienti musicali. Ha
fatto il DJ, ha lavorato per la Island Records anche se non si sa bene con
quale incarico. In veste di produttore ha lavorato al disco di debutto dei Mott
the Hoople. È uno di quelli che conosce tutti e che tutti conoscono anche se
non si capisce esattamente cosa faccia nella vita. Il loro primo incontro è
stato folgorante. Si è presentato con la barba lunga, i capelli ricci e
arruffati che non conoscevano il contatto con l’acqua da parecchio tempo e con
l’attaccatura che partiva da metà cranio, un maglione di una gradazione
indefinibile di rosso e soprattutto maleodorante in maniera quasi
insopportabile. Era evidentemente all’ultima spiaggia e per Mick Jones da
allora non ci sono più state discussioni. Era lui il loro uomo. Alla CBS lo
conoscono bene e si sono opposti finché hanno potuto. Fino cioè al punto in cui
Mick Jones ha fatto loro presente che siccome hanno detto in maniera molto
chiara che non avrebbero accettato un altro disco dallo scarso successo, se
dovevano affondare sarebbero affondati con un produttore che avevano scelto loro.
La formazione sarebbe stata completata da Bill Price come ingegnere del suono. Avrebbero
inciso nei Wessex Sound Studios di Londra, di proprietà della CBS.
Stavolta l’istinto
di Mick Jones ha funzionato in maniera sorprendente anche per lui. Il primo
giorno in sala d’incisione è stato decisivo. Per Give ‘em enough rope avevano un produttore americano, Sandy
Pearlman. Lo snervante processo prevedeva che ognuno suonasse separatamente la
propria parte. Alla fine di ogni registrazione Sandy diceva: «Ok non è male ma
potresti rifarla un po’ più veloce?» oppure più lenta, o con un effetto diverso
o usando un’altra chitarra, fino a che non si arrivava a un punto per lui
accettabile. È un sistema che alcuni prediligono perché alla fine i suoni
diventano molto più precisi ma i Clash non trovavano molte differenze con l’alzarsi
la mattina per andare in ufficio. Guy Stevens invece è arrivato il primo giorno
con gli stessi vestiti che gli avevano visto indosso la sera prima. Non si sono
nemmeno accorti della sua presenza in cabina di regia. Lo stavano aspettando
come al solito improvvisando e ne era nata una versione scanzonata di Brand New Cadillac, un vecchio classico
di Vince Taylor. Alla fine dell’esecuzione nelle cuffie sentono Guy che
strilla: «L’ho presa!». Scoppiano a ridere sia per il modo di urlarlo che per
l’idea in sé. Ma lui non ha nessuna intenzione di scherzare. Quando Paul se ne
accorge comincia a preoccuparsi. «Ho fatto almeno 3 errori, non puoi tenere
questa.», «Non me ne frega un cazzo. È buona e la tengo, che tu lo voglia o no.
Venite a sentirla.» Mollano gli strumenti e lo raggiungono. Finito il nastro sono
costretti ad ammettere che aveva ragione lui.
Da allora
si è conquistato la stima di tutti. Paul e Topper in particolare lo adorano. Sono
soprattutto loro ad aver beneficiato del suo arrivo. Paul è cresciuto un casino
come musicista anche perché si è sentito libero di suonare qualsiasi cosa gli
passasse per la testa. Ha anche scritto e cantato The Guns of Brixton, un brano che inizia con un suo giro di basso
che ti si appiccica addosso e che è un reggae, il genere che ama da sempre.
Topper è sempre stato tecnicamente una spanna sopra agli altri tre, solo che
qui se ne sono accorti tutti, grazie alle infinità di stili che compongono il
disco e che Guy non ha nessuna voglia di imbrigliare.
Suonano
sempre tutti insieme in cerchio attorno a Topper. Regolarmente dopo qualche
minuto Guy non resiste più in console e si piazza in mezzo alla band iniziando
a saltellare, a volte a pochi centimetri dalla loro faccia. Già questa è stata
una situazione a cui si sono dovuti abituare. Il bello è che se comincia a
farsi prendere dalla musica, Guy inizia a brandire quello che trova e lo lancia
in giro per lo studio. Le sue preferite sono le sedie di plastica ma più di una
volta ha fatto roteare una di quelle scale di legno, anche piuttosto alte, che
usano i tecnici per sistemare le attrezzature. Guy non farebbe male a una mosca
ma non deve essere molto naturale suonare con una scala di legno a pochi
centimetri dalla tempia. Non si presenta nemmeno tutti i giorni in studio. Visto
che le canzoni non mancano li lascia suonare e trovare l’amalgama tra di loro e
inizia a lavorare in un secondo momento su quello che gli fa sentire Bill
Price, l’ingegnere del suono.
Gli
aneddoti su Guy che si accumulano in quei pochi giorni sono infiniti. Se non va
a saltellare in mezzo a loro la sua posizione preferita per ascoltare la resa
di una canzone è sdraiato sotto la console che Bill Price cerca faticosamente
di manovrare. Le loro discussioni più frequenti vedevano da una parte Bill che
cercava di bilanciare i livelli di tutti per dare un suono più organico
possibile e dall’altra Guy che voleva alzare i livelli quasi a caso, basandosi
solo sul suo puro istinto. Un giorno dalla sua posizione sdraiata sotto la
console Guy si accorge che Bill sta abbassando il volume del basso di Paul. «Non
toccare il basso» gli urla Guy. Bill gli dà retta ma dopo pochi secondi abbassa
di nuovo leggermente il cursore di Paul. «Ti ho detto di non toccare il basso,
Bill!», «Ah ok, scusa. Come vuoi tu», ma ripete lo stesso giochino: alza il
volume per poi cercare di abbassarlo gradualmente senza farsi scoprire da Guy.
Guy però lo becca di nuovo e non ci vede più. Con la mano dal basso lo prende
per una gamba e comincia a stringerla. Di lì a poco ne nasce una zuffa mentre i
Clash sono chini sugli strumenti. Mick Jones alza la testa, se ne accorgo e
inizia a ridere senza riuscire a smettere. «Buttate un occhio» dice agli altri nel
punto massimo della rissa, «quelli sono il produttore e l’ingegnere del suono
del nostro disco decisivo».
Un’altra
volta lui era già in studio quando sono arrivati Mick e Joe. Joe si è messo a
strimpellare al piano, uno strumento su cui da parecchio stava cercando di
migliorare. Guy gli si avvicina da dietro col suo passo dinoccolato e inizia ad
incitarlo. Joe prima quasi si spaventa poi, quasi in imbarazzo, cerca di darci
dentro per fare contento Guy. Pian piano ci prende sempre più gusto. Guy ha un
radar tutto suo per capire quando per un musicista suonare smette di essere una
splendida professione e inizia a diventare una vera passione facendolo entrare
in una specie di trance. Si accorge dell’esatta frazione di secondo in cui Joe
varca quella soglia e inizia ad urlargli: «Jerry Lee Lewis! JERRY LEE LEWIS!!!»
sempre più rapido e a un tono sempre più alto versandogli sulle mani e sul
pianoforte del vino rosso. Mick si avvicina e gli chiede cosa diavolo stesse
facendo. «Mick, suona meglio così, non lo senti?» gli risponde. Nel bilancio di
quella giornata ci finiscono seimila dollari di danni al pianoforte e una
versione clamorosa di The card cheat,
una canzone su cui il giorno dopo cercano di sperimentare una specie di quel
“wall of sound” reso celebre da Phil Spector. Invece della maniacale cura dei
dettagli di Spector e delle sue tecniche di registrazione, Guy ha fatto suonare
lo stesso brano due volte alla band “appiccicando” la prima registrazione sulla
seconda fregandosene se alcune parti non collimavano perfettamente e facendo
cantare Mick in un secondo momento sopra al risultato di quell’esperimento. Il
tutto ovviamente condito dalle sue immancabili sedie da roteare sopra la testa
e poi lanciare in mezzo al gruppo.
Cliccando
sull'immagine a lato trovate un filmato da YouTube in cui si può intuire l'atmosfera che regnava in studio
È l’ultimo
giorno di registrazione. A meno di sorprese dell’ultima ora il dado è tratto. Si
trovano insieme a Guy e Bill per risuonare il disco per intero. È il giorno
preferito dalla band, quello in cui si sentono più orgogliosi di farne parte. Di
fronte a sé Mick Jones ha Joe Strummer: tra di loro è quello che è nato nella
culla più fortunata, visto che suo padre è un pezzo grosso della diplomazia
inglese, eppure è quello che più di tutti ha sempre spinto verso testi e prese
di posizione radicali verso il mondo esterno. Alla sua sinistra c’è la batteria
di Topper Headon che emerge in tutta la sua versatilità, soprattutto oggi che
suonano il disco per intero. Alla sua destra sorride a Paul Simonon,
semplicemente il bassista più cool che abbia mai visto dal vivo, col suo basso
Fender perennemente appoggiato sulla parte esterna della coscia destra e che ha
iniziato a suonare dopo che proprio Mick ha insistito con lui fino allo
sfinimento. In mezzo a loro almeno una decina di sedie di plastica attorno alle
quali Guy Stevens balla come durante un rito voodoo.
Finito di
suonare ci sono da decidere i dettagli finali. Il titolo che hanno deciso è The last testament. Nella loro testa
questo sarà l’ultimo disco rock and roll. Seguendo questo filone con Ray Lowry
che cura la grafica, stanno mettendo a punto una copertina che tracci un
parallelo col disco di debutto di Elvis, per dare l’idea della fine di un’era
che proprio quel disco aveva iniziato. Come il disco di Elvis anche quello dei
Clash avrà a sinistra una scritta verticale rosa e in basso una scritta
orizzontale verde. Dove però Elvis alzava la sua chitarra verso l’alto da loro
ci sarà il basso di Paul Simonon fuori fuoco appena prima di essere frantumato
al suolo proprio da Paul. Lo scatto è di Pennie Smith durante una data al
Palladium di New York in cui Paul sfogò la sua irritazione per il pubblico che
era rimasto seduto durante tutto il concerto.
È davvero
ora di andarsene. Guy si ricompone e impila tutte le sedie che aveva sbattuto
in giro. Si sprecano gli abbracci per la fine di questo viaggio esaltante e Mick
Jones aspetta apposta che se ne vadano tutti per restare a ringraziare Guy.
Abbraccia anche lui ma con una intensità diversa dagli altri, forse perché
entrambi sanno che non potrà esserci un seguito ad una avventura del genere. «Non
so come andrà il disco» gli dice, «ma so che l’abbiamo registrato nell’unico
modo possibile. Adesso però vai a casa e datti una lavata.»
È Guy a
spegnere le luci un’ultima volta in quella sala che negli ultimi giorni ne ha
viste di tutti i colori. Appena chiude la porta sentono dietro di loro un
rumore di terremoto che dura qualche secondo. Guy riapre la porta e rimettono
la testa dentro quanto basta per vedere per terra una quantità indefinita di
sedie, quelle che aveva impilato pochi minuti prima. «E’ destino Guy», «Gran
bel suono però quello delle sedie Mick». Solo Mick Jones sa il bene che vuole a
quell’uomo.
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