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JIMMIE NICOL

Un Disgraziato Colpo Di Fortuna


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Un giochino che si faceva spesso da ragazzi (e forse si fa ancora) tra appassionati di musica, è quello di nominare una band e vedere chi si ricorda a memoria la formazione. C’è però un musicista che ha fatto parte di una band famosissima, a dire il vero forse la più famosa di tutte, che non ricorda quasi nessuno. Jimmie Nicol nasce a Londra il 3 Agosto 1939 e ben presto si appassiona alla batteria. Milita in diversi gruppi nei primi anni Sessanta ma è con una band chiamata The Shubdubs che le cose sembrano cominciare a girare per il verso giusto. Suonano quasi tutte le sere e qualche volta anche fuori Londra. Il loro seguito aumenta poco a poco ad ogni concerto grazie al passaparola e ben presto arrivano a suonare davanti a una settantina di persone.

Poi, il 3 Giugno 1964 tutto cambia con una forza e in un modo così assoluto da far assomigliare quel giorno ad una lama che taglia la vita di Jimmie Nicol in due parti ben distinte. Verso le 10 il suo telefono squilla in una mattina in cui la testa quasi gli scoppia dopo che la notte prima ha toccato il letto ad un orario improbabile al rientro a casa finito un concerto. Dopo una ventina di squilli e la quasi quotidiana falsa promessa di smettere di bere, una voce femminile incredibilmente seria gli parla dall’altra parte della cornetta: «Buongiorno. Parlo con Jimmie Nicol?», «Sì certo, in persona. Buongiorno» «Sono la segretaria di Brian Epstein, glielo passo». Mentre passa una musichetta di attesa, cerca di fare mente locale su chi possa avergli fatto uno scherzo del genere alle 10 del mattino. Non i suoi soci di band, visto che ieri sera erano tutti in condizioni orrende. La voce femminile non sembra nemmeno quella della ragazza con cui ha parlato fino allo sfinimento dopo aver suonato. Un perentorio «Buongiorno Jimmie» ferma improvvisamente le sue congetture. La voce è effettivamente molto, troppo simile a quella del manager dei Beatles. Perché anche questo significa quel gruppo in quell’epoca: conoscere persino il nome e la voce del manager.

«Buongiorno a lei signor Epstein»

«Che ne dici di venire a farti un giro negli Studios? Magari ti faccio vedere anche il mio ufficio». Epstein che chiede a Jimmie Nicol di fare un giro agli Studios, mah.

«Volentieri. Questa settimana sono abbastanza libero. Mi dica lei il giorno in cui è più comodo.»

«Caro Jimmie, temo di non essermi spiegato a dovere. Sarei felice se tu fossi qui verso mezzogiorno.»

«…»

«Jimmie, ci sei?»

«Sì sì, ci sono. Sto solo cercando di capire se è uno scherzo»

«Caro Jimmie, io non scherzo mai. Ti aspetto qui a mezzogiorno.»

Mancano cinque minuti a mezzogiorno quando Jimme sale gli otto scalini all’entrata degli Abbey Road Studios. Continua a girarsi per controllare se c’è qualcuno dei suoi amici che ha messo in piedi tutta questa storia solo per farsi quattro risate.

«Buongiorno. Mi chiamo Jimmie Nicol. Ho un appuntamento con Brian Epstein». La signora alla reception lo squadra e probabilmente dubita che il suo aspetto sia quello di uno che ha veramente appuntamento con il manager musicale più famoso del mondo. La cosa più comica è che nemmeno lui ne è molto sicuro. Con poca voglia alza la cornetta, parla con chi deve parlare e fuga i dubbi di entrambi. «Il signor Epstein la aspetta al primo piano».

JimmieNicol1.jpgArriva in un attimo al primo piano e trova Epstein a sorridergli in corridoio, sulla porta del suo ufficio. Il tempo di accomodarsi e capisce che sta succedendo qualcosa, anche se non sa ancora bene cosa. Lo capisce perché Epstein sembra più nervoso di lui e soprattutto ha una fretta incredibile. Non gli offre nemmeno da bere e dopo i primi stringatissimi convenevoli attacca a pressarlo con domande su quante e quali canzoni conosca dei Beatles e se le sappia suonare. Nel frattempo, da una porta diversa da quella da cui è entrato, appare George Martin, il produttore dei Beatles. I due si conoscono perché poco prima Jimmie ha inciso qualche brano con Tommy Quickly, un cantante della scuderia di Martin. Le prime gocce di sudore gli si formano in fronte e cominciano a scendere sulle tempie. Sono di quelle pesanti, che si sentono scorrere ad ogni millimetro che percorrono.

«Sì, me la cavo. Alcune canzoni dei Beatles le ho anche suonate qualche settimana fa su Beatlemania, un EP di cover.»

«Lo sappiamo.» Questa volta è George Martin a parlare. «Il tempo stringe Jimmie. Sarò breve. Stamattina, appena prima di chiamarti, Ringo è stato male durante una sessione fotografica per il Saturday Evening Post. Adesso è in ospedale con la tonsillite e a breve dobbiamo partire in tour. Danimarca, Olanda, poi Hong Kong e infine Australia.»

«E quindi?» si rende conto di far la parte di quello non molto sveglio ma quello a cui pensa è troppo improbabile. Cadere dall’alto fa sempre più male.

«E quindi ci stavamo chiedendo se ti va di far parte dei Beatles almeno fino a quando non tornerà Ringo.»

Jimmie si gira d’istinto alla sua destra e alla sua sinistra, quasi di scatto. Si aspetta sempre che qualcuno venga a dirgli che lo scherzo è finito ed inizi a ridere di lui. «Mi prendete in giro, vero?»

Brian Epstein ha un gesto di stizza e rischia di rompere la costosa penna stilografica che ha in mano stringendola troppo. «Caro Jimmie. Te l’ho spiegato al telefono. Io non scherzo mai».

Per aggiungere un’altra dose di assurdità a quella davanti ai suoi occhi, dalla stessa porta da cui è entrato George Martin arrivano John, Paul e George. La testa sta per esplodergli e ha un capogiro che rischia di farlo svenire. Si stringono le mani. Sono tutti e tre molto alla mano e gentili ma la sensazione è che per George molto più che per gli altri sia una questione formale e di buone maniere, non molto sentita. Brian comincia poi a parlare di soldi. Duemilacinquecento pounds di ingaggio e duemilacinquacento pounds per ogni concerto. È John a rompere l’imbarazzo di una situazione completamente inimmaginabile fino a tre ore fa. «Buon Dio, Brian, devi essere pazzo. Non puoi dargli duemilacinquecento sterline a concerto».

Jimmie si stringe nelle spalle e immagina che questo sia il punto in cui l’incantesimo si rompe, tutto finisce e torna alla sua vita di batterista da pub. «Devi dargliene almeno diecimila!». Scoppiano tutti a ridere e la strada si fa un po’ più in discesa. Rimane solo una cosa da chiarire. «Quando si parte?»

«Vediamo un po’ caro Jimmie», attacca Brian, «il primo concerto è a Copenaghen il 4 Giugno. Domani.»

«Domani???»

«Domani, caro Jimmie. Al piano di sopra ci sono le sale prove. Avete due ore per provare. Poi ti accompagneranno a casa, farai la valigia e si parte.»

Gli eventi prendono a scorrere come una sfera su un piano inclinato. Jimmie si lascia trasportare e dopo pochi minuti si trova ad ascoltare Paul che urla «One, two» per l’attacco di She loves you.

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Le prove vanno avanti due ore esatte come programmato, durante le quali capisce come mai George era stato di gran lunga quello più freddo nell’accoglierlo. Lui è contrario a partire in tour senza Ringo. C’è voluta la forza di persuasione di tutti gli altri, George Martin e Brian Epstein compresi, per convincerlo. Gli sembra di tradire Ringo. Evidentemente Jimmie non è andato troppo male perché appena finite le prove torna nell’ufficio di Brian per firmare i contratti, anche se la scaletta è stata ridotta da undici a dieci canzoni. Decidono di tenere fuori I wanna be your man che avrebbe dovuto cantare Ringo. La macchina organizzativa fa sì che nel giro dei successivi quaranta minuti il look di Jimmie sia completato dal moptop, il taglio di capelli tipico di un Beatle, e dai vestiti di Ringo, che per fortuna ha la sua stessa taglia.

Una limousine lo aspetta per portarlo a casa e buttare in valigia qualche cambio per il tour. Scende quegli stessi otto scalini degli Studios con due falcate. È difficile realizzare quanta differenza ci sia tra lo scenderli in quel momento e il salirli poche ore prima. In casa cerca di starci il meno possibile, quasi come se ci fosse il rischio di farsi risucchiare nella vita di prima della telefonata. È talmente piccola che ne conosce a memoria persino le ombre, come se anche quelle facessero parte dei muri.

jn4.jpgSenza quasi rendersene conto è sull’aereo che li sta portando verso la Danimarca. C’è una frase che gli ha detto George Martin e che la relativa calma del volo gli fa risuonare in testa: «almeno fino a quando non tornerà Ringo». La frase poi diventa una singola parola, come un fotogramma di un film ripetuto all’infinito: «Almeno». Non sa se sia una parola generata dalla fretta e dalla incredibile eccezionalità del momento ma non può fare a meno di pensare al valore di quella singola parola. La notte in albergo a Copenhagen è completamente insonne fino alle tre. Poi, appena l’adrenalina cala, crolla senza più resistenze. È pomeriggio inoltrato del 4 Giugno quando è ora di salire sul palco alla KB Hallen. C’è un frastuono che non ha mai sentito in vita sua. Sono urli, soprattutto femminili, che non permettono di sentire praticamente nulla oltre la cassa della batteria. Vede Paul muoversi ma dai monitor di palco non riesce a percepire nessun suono. Paul si gira verso di lui e ci riprova. Ancora nulla. Paul allora gli si avvicina: «Ho urlato due volte l’attacco. In qualche modo dobbiamo cominciare.» Come inizio poteva andare meglio. Vede Paul muoversi di nuovo, di nuovo non sente nulla ma inizia a suonare, praticamente a caso. Per fortuna sono gli altri ad andargli dietro e col fatto che adesso suonano anche George e John, qualcosa riesce a sentire.

Da lì in poi le cose scorrono nel suo piano inclinato di prima. Dopo Copenhagen ci sono Hillegom e Blokker in Olanda, poi il 9 Giugno Hong Kong e 2 date ad Adelaide in Australia, il 12 e il 13 Giugno.

Tutto dura fino all’alba del 14 Giugno. Hanno appena finito la seconda giornata in Australia e con una sorpresa Ringo fa la sua apparizione. In quell’esatto istante, nei sorrisi con Paul, John e George e negli abbracci che si scambiano, nelle battute che hanno dei sottintesi a cui non riesce ad avere accesso, Jimmie capisce la differenza che passa tra il ricevere una grande accoglienza ed essere uno di loro. In quell’istante gli è chiaro che quell’ almeno pronunciato da George Martin resterà senza un seguito. La sera escono a festeggiare insieme ma la situazione non è quella di un gruppo di cinque persone. È un gruppo di quattro persone con un ospite. Poco dopo essere rientrati in hotel lo avvisano che l’aereo sarebbe partito poche ore dopo. I Beatles continueranno il tour. Esce dall’hotel mentre loro dormono. Non ha nemmeno modo di salutarli.

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In aeroporto a Londra è la solita Limousine dai vetri oscurati che viene a prenderlo e lo porta agli Studios. Lo portano nell’ ufficio di Brian Epstein. Sulla scrivania c’è un pacchetto. Dentro c’è un assegno con altre cinquecento sterline e un orologio, un Eterna. Sulla cassa c’è un’incisione: Dai Beatles e da Brian Epstein a Jimmie. Con stima e gratitudine. Comincia a piangere a dirotto. Non sa nemmeno lui dire se per la gratitudine o per l’amarezza di essere sceso dalla giostra. Saluta la signora alla reception e inizia a contare: Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette e otto. Otto scalini.

 

Jimmie Nicol ha guadagnato circa quarantamila sterline dal tour con i Beatles. Nove mesi dopo quell’esperienza fu costretto a dichiarare bancarotta con un debito di quattromilaesessantasei sterline. Dopo aver riformato per qualche anno i Shubdubs, ha vissuto in Messico per studiare la samba e la bossa nova, e in seguito in Australia. In una delle rarissime interviste concesse ha dichiarato: «Prendere il posto di Ringo è stata la cosa peggiore che mi potesse capitare. Fino ad allora ero abbastanza contento di guadagnare trenta o quaranta sterline a settimana. Nel momento in cui su di me si sono d’improvviso spenti i riflettori ho cominciato a spegnermi anch’io. Quando i soldi hanno cominciato a scarseggiare, ho pensato alla possibilità di monetizzare quell’esperienza in un modo o nell’altro. Ma mancava il tempismo, e non volevo dare fastidio ai Beatles. Con me sono si sono comportati maledettamente bene».

 


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Autore : Federico Piva, 14/03/2022