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CANCELLED. Ry Cooder ricorda bene il senso di sconforto quando
Nick Gold e Juan de Marcos Gonzalez gli mostrarono quella scritta di fianco al
volo che sarebbe dovuto partire da Parigi. Era il marzo del 1996. Era all’Avana
da nemmeno un’ora ed era nel mezzo di una situazione completamente
inverosimile. Nonostante un embargo che durava da più di trent’anni lui da
americano era stato in grado di arrivare a Cuba, pur se attraverso una tappa
intermedia in Messico, mentre i visti venivano negati a dei musicisti del Mali.
Ma facciamo un passo indietro.
Era stato
Nick Gold della World Circuit Records a contattare Cooder qualche settimana
prima. Era già a Cuba e diceva di aver finalmente trovato i musicisti giusti
per realizzare quello che da un po’ era diventata la sua fissa: mettere insieme
musicisti cubani del periodo d’oro della loro musica tradizionale – gli anni
’40 e ’50 – e musicisti dell’Africa occidentale, con due scopi principali:
rendere giustizia a interpreti ormai praticamente destinati all’oblio e
sottolineare il grande contributo della musica africana nella tradizione di
Cuba. Il tramite sarebbe stato Juan de Marcos Gonzalez, già leader dei Sierra
Maestra e musicista poco più che quarantenne, praticamente un infante rispetto
all’età media dei protagonisti coinvolti, in possesso sia della forza fisica e
mentale per mettere insieme un progetto del genere che della conoscenza e della
passione verso un genere che sembrava ormai dimenticato. Aveva inoltre appena
portato a termine con successo un’avventura simile anche se meno complessa.
Sotto il nome di Afro Cuban All Stars aveva fatto uscire un bel disco
intitolato A toda Cuba le gusta
dedicato però esclusivamente alla musica cubana più tradizionale. Il passo in
avanti successivo nel programma era quello di provare a svecchiare quei suoni
con il contributo di Ry Cooder, delle percussioni di suo figlio Joachim e dei
principali musicisti maliani di High-life, un genere che mette insieme le
melodie e le strutture ritmiche della tradizione Akan, verniciandole a nuovo
attraverso l’uso di strumenti occidentali. Ma, già poco dopo l’arrivo di Ry
Cooder a Cuba, a quanto pareva il progetto era destinato a tramontare.
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Silenzio. Un
lungo, stanco e pesante silenzio è praticamente tutto quello che Cooder ricorda
davanti al tabellone degli aerei in arrivo. Ma dentro a quel silenzio c’era
quasi tutto: l’entusiasmo della telefonata con cui Nick Gold gli aveva parlato
dei musicisti che aveva selezionato in due continenti, l’estenuante fase
preparatoria della parte logistica dei viaggi, la frustrazione di vedere
distrutto in pochi secondi per inutili inghippi burocratici un progetto portato
avanti da tutti noi con una smania mai provata prima. Mancava la forza di fare
o anche solo di pensare a qualsiasi cosa. Cooder, Nick Gold e Juan de Marcos
Gonzalez erano su un binario morto con le temporaneamente sembianze di tre
sedie in plastica dell’aeroporto dell’Avana che sopportavano il peso di tre
uomini provenienti da tre continenti diversi, tutti e tre con le mani nei
capelli. La forza per continuare non poteva che arrivare da un esterno. Da una
cabina telefonica Juan de Marcos Gonzalez con qualche difficoltà era riuscito a
mettersi in contatto con Orlando Lopez, detto Cachaito, un virtuoso del
contrabbasso classe 1933 ma soprattutto colui che avevano individuato come una
sorta di capitano dei musicisti coinvolti. La sua voglia di far parte del
progetto era andata ben oltre qualsiasi intoppo. La sua idea era quella di farli
rimanere a Cuba, darsi tre giorni di tempo e poi decidere se abbandonare
completamente il progetto o se portarlo alla fine, magari modificando l’idea
iniziale dove necessario. Secondo lui l’isola di Cuba era così intrisa di
musica nel profondo che avrebbero comunque trovato di che sfamare la loro
voglia di mostrare un lato diverso della musica latino-americana.
Con poche
speranze decisero di lasciare l’aeroporto e dirigersi verso i loro domicili
temporanei nel centro della capitale. Il tempo di appoggiare i bagagli e Cooder
si buttò sul letto completamente svuotato. La stanchezza e lo stress di una
giornata del genere fecero il resto. Era già mattino quando riaprì gli occhi
dopo un sonno che raramente era stato altrettanto riposante. L’appuntamento era
agli studi della EGREM, l’etichetta nazionale cubana. Il punto di svolta è
stato quando è arrivato a piedi sotto il palazzo in cui si trovano gli studi.
Dalla strada si sentivano i rumori delle prove ed era esattamente quello di cui
aveva bisogno: erano i suoni che riconosceva come ormai familiari per averli
sentiti su migliaia di dischi che lui e Nick Gold riuscivano a procurarsi dopo
ricerche maniacali ma il fatto di essersi formato sui solchi del rock and roll gli
faceva sembrare quella musica allo stesso tempo come un territorio ancora da
esplorare in lungo e in largo.
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Ma la musica
ancora non era ancora nulla. Aperto l’enorme e pesante portone dello studio
principale l’immagine che si era trovato davanti lo aveva lasciato a bocca
aperta. Letteralmente. Tanto che Nick Gold gli venne incontro per stringergli
la mano e in maniera molto inglese gli bisbigliò: «Lo so. È incredibile. Ma
chiudi quella bocca o entrano le mosche». Subito dietro a lui riconobbe le
facce che prima aveva visto immortalate su alcuni dei dischi che era riuscito
ad accaparrarsi. C’era Compay Segundo, 89 anni da fare a Novembre e un sorriso
arricchito da un immancabile sigaro; c’era Ibrahim Ferrer, 69 anni; c’era Ruben
Gonzalez, 77 anni, già seduto per ricamare al pianoforte e poi c’era lei, Omara
Portundo, una giovanotta di appena 64 anni e un portamento da star di
Hollywood. Ma insieme a loro c’era anche una infinità di musicisti incredibili.
Come abbiano fatto Cachaito e Juan a radunarli nelle poche ore che sono passate
dal loro colloquio della sera prima all’aeroporto rimarrà per sempre un mistero
e una magia. Il modo migliore di descrivere questa banda l’ha trovato Wim
Wenders quando ha insistito per accompagnare Cooder a Cuba all’inizio di quell’anno
a immortalare su pellicola la magia di quell’isola e di quello che da lì è
riuscito a scaturire. «Ry», gli disse mentre li vide eseguire Chan Chan, quello che è poi diventato un
po’ l’inno di questo progetto, «non ti sembrano tutti dei personaggi di un
romanzo?». Ha ragione. È esattamente così. Ogni volto sorridente ha dietro una
storia che meriterebbe di essere raccontata su di un libro. Ibrahim Ferrer
aveva deciso due anni fa di smettere di regalare al pubblico la sua voce
cristallina e per campare faceva (alla sua veneranda età) il lustrascarpe. Ruben
Gonzalez era il primo a cui Ry Cooder aveva pensato per il disco. Non toccava
un pianoforte da dieci anni e addirittura aveva venduto il suo per poter
continuare a campare. Quando Cooder aveva chiesto di lui a Cachaito gli aveva
detto che non era più in grado di suonare a causa dell’artrite. Con delle personalità
del genere non potevano fallire. Cooder lo continuava a ripetere a Nick Gold
che rimaneva il più scettico sul possibile successo sul disco, forse per la
delusione di non aver potuto coinvolgere i musicisti del Mali. «Lo pubblichiamo
proprio perché sei tu», gli ripeteva spesso, «ma se non vendiamo almeno
centomila copie facciamo a metà delle spese».
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E adesso
eccoli lì Cooder e Gold, un Grammy Award e otto milioni di copie dopo,
all’aeroporto JFK di New York emozionati come il primo giorno di scuola. È
ancora il silenzio che la fa da padrone ma è un silenzio dal significato
opposto a quello che regnava all’aeroporto dell’Avana. Tra poco quella
strampalata compagnia di sorridenti vecchietti cubani atterrerà a New York,
molti per la prima volta. Da quando Buena
Vista Social Club ha consentito loro di iniziare dei tour fuori dalla loro
amata isola caraibica, suonare alla Carnegie Hall era diventato un chiodo
fisso. La misura del successo del disco, più che i numeri, la dà il fatto che
per riuscire a concordare una data che andasse bene per tutti hanno sudato le
proverbiali sette camicie, impegnati come sono nei loro tour. Il concerto è
domani e stasera Cooder e Gold si godono la loro compagnia in giro per la
Grande Mela. Ci sono Pio Leyva e Manuel Licea detto Puntillita che camminano
tutto il tempo abbracciati e che ad un certo punto si bloccano davanti a un
negozio di souvenir acchiappaturisti. Ci sono delle statuine che ritraggono
alcuni dei più famosi personaggi della storia politica e musicale americana.
Pio Leyva riconosce subito JFK e Louis Armstrong che definisce quello che con la tromba suonava le note che
toccavano il cielo ma ignora chi siano tutti gli altri, da Marilyn Monroe a
Nixon, da Magic Johnson a Frank Sinatra. Se l’America è il centro del mondo, ci
sono alcuni mondi che hanno il loro
centro in un punto molto diverso. C’è Cachaito con un giubbotto di jeans degno
dei più conosciuti spacciatori di Coney Island che sta facendo una via crucis
di cabine telefoniche nel vano tentativo di telefonare a casa, con in mano una
borsina di plastica da supermercato con dentro non si sa cosa. C’è Eliades
Ochoa che fa un po’ da tutore di Ruben Gonzalez il quale insiste per indossare
anche domani sera sul palco la stessa stupenda e coloratissima camicia che porta
adesso e che gli fa da portafortuna. C’è Ibrahim Ferrer che a New York non
c’era mai stato ed è completamente stordito dalla città. Ha in mano una
macchina fotografica usa e getta da pochi dollari e continua a fotografare
scorci che per un americano sono decisamente trascurabili: le luci di un
negozio, il marciapiede, il traffico della Settima Avenue. Sembra una gita di
ragazzi di terza media che per un incantesimo si sono ritrovati coi capelli
imbiancati, qualche acciacco fisico e una milionata di rughe in più sul viso.
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Dietro le
quinte appena prima di cominciare lo spettacolo continuano a chiedere a Cooder
se sono stati venduti abbastanza biglietti. La sala principale è sold out da
mesi ma Cooder continua a far finta di non sapere niente. Si accomoda nelle
retrovie dove imbraccia la sua fidata slide e si gode uno dei migliori spettacoli
che abbia visto in vita sua. L’agitazione di tutti ha il profumo della smania di
un palco così importante e insperato e non li fa rinunciare ai loro sorrisi
larghi e da vecchie volpi dello spettacolo. Non c’è nemmeno l’ombra di un
qualsiasi capriccio da divi. Solo Omara Portuondo non rinuncia al suo vezzo di
chiedere gli applausi al pubblico appena inizia a cantare. La scaletta lascia
il pubblico senza fiato, con buona parte dei successi contenuti nel disco e che
ormai tutti conoscono ma con anche qualche pezzo meno popolare preso dalla
sterminata tradizione musicale cubana. È uno dei pochissimi concerti che Cooder
si gode più da spettatore che da musicista sul palco. Cerca di ricamare qualche
trama con la slide ma nel monitor ai suoi piedi tiene ben più alti i volumi di
tutti gli altri. Il pezzo simbolo della serata resterà per sempre Silencio. È un duetto tra Ibrahim e
Omara al termine del quale quest’ultima fa un lungo inchino accompagnato dal
suo irresistibile sorriso. I riflettori illuminano una lunga e grossa lacrima
che senza preavviso le riga la guancia sinistra. Ibrahim Ferrer se ne accorge e
asciuga la lacrima con una dolcezza da togliere il fiato. È una emozione che
credo sia la stessa per chiunque faccia parte di questo momento, sia sul palco
che in platea. Non è da confondere con alcun tipo di malinconia o di tristezza.
È l’emozione ormai incontenibile data dall’orgoglio di essere finalmente
arrivati al meritato successo dopo una vita condotta nel migliore dei casi
appena sopra una dignitosa povertà. Dopo l’ovazione finale in cui compare anche
una bandiera cubana Cooder saluta ed abbraccia uno ad uno tutti i protagonisti
di questa esaltante epopea cominciata con pochissimo entusiasmo poco più di due
anni fa. Un po’ alla volta anche la Carnegie Hall si svuota e Cooder finge di
riporre la chitarra nella custodia, di sistemare i cavi, di spostare gli
amplificatori fino a che la sala principale è completamente vuota. Dai camerini
arrivano le risate del più incredibile gruppo di vecchietti che abbia mai
visto. Si accomoda sulla sedia su cui è stato seduto durante il concerto.
Chiude gli occhi. Silenzio.
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Autore :
Federico Piva, Aprile 2023 |
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